Gli Itineranti incontrano Valerio Varesi per discutere de Lo stato di
ebbrezza. Ultimo libro di una trilogia storico politica del nostro Paese. Il
protagonista è Domenico Nanni, giornalista. Uno che non si è fatto scrupoli ad
arraffare tutto ciò che poteva. Orfano, cresciuto dalla madre che si è
sacrificata oltremodo per garantirgli un futuro. Ma ci sono gli anni ottanta e
Domenico entra nell’ubriacatura generale fino a quando, a quasi sessant’anni,
non gli arriva un rigurgito di coscienza che ci fa vedere ‘un unico color di
buio come il canarino cui coprono la gabbia’.
Lo stato di ebbrezza è un romanzo storico?
Tutto quello che è passato è
romanzo storico. Gran parte della letteratura è storia perché parla del
vissuto. Poi, per definizione è quello che si propone di raccontare un’epoca. Questa,
di cui parlo in questo libro, è materia viva che deve essere ancora raccontata.
È satirico?
Io uso il grottesco. Il registro
più comico è il grottesco. Ci sono situazioni tragicomiche, tipo l’episodio con
cui chiudo il libro. La mozione Paniz. L’Italia ha vissuto una situazione molto
comica, tragicamente comica.
Domenico Nanni, il giornalista, sei tu?
Nanni è più vecchio di me. È
giornalista per un breve tratto della sua vita. Poi è pierre, è colui che vende
fumo. È il prototipo di un certo tipo di persone che hanno convertito il loro
talento occupando un posto nel mondo.
E Susanna, chi è?
Susanna è una ragazza all’inizio
spregiudicata. Capisce subito che bisognava infiltrare il potere. Cosa che alla
fine la rende disperante.
Per questo si lasciano lei e Domenico?
Il loro rapporto è figlio di
quell’epoca lì. Non c’era l’idea di camminare assieme. Quando lui scopre che
lei è così, finisce la magia. Anche lui è alla ricerca di qualcosa.
La rivoluzione linguistica adottata. Sembri un Valerio diverso dai due
libri precedenti.
È una rivoluzione necessaria
perché racconto il farsesco. Gli anni raccontati hanno perduto di serietà e
hanno bisogno di questo linguaggio. Forse gli anni fino agli ‘80 erano di
scontri. Dopo abbiamo anni fluttuanti, dal noi all’io, individui a pensare solo
in funzione di se stessi. Mi sento un personaggio cangiante. Così La sentenza è
un romanzo epico. Il rivoluzionario ha del lirismo diffuso. Avevo bisogno di raccontare
con velocità questo edonismo reaganiano. La modalità di scrittura ce l’avevo in
serbo, deriva dall’ammirazione per Celine, destrutturando la lingua.
Ti sta pesando?
No, mi fa piacere! È una lingua
diversa, ma è quello che volevo. Lo stile racconta un’emozione. Poi, io racconto
questa storia per episodi di modo da far pensare subito al lettore ‘dove siamo
finiti?’. È un libro surriscaldato. Non è stato facile mantenere questa lingua
per trecento pagine.
In altri tuoi romanzi è ben definibile il nemico. Qui dov’è?
Ci sono troppe cose. Nel
rivoluzionario c’era la classe operaia, i metodi capitalistici, il mondo era
diviso in due. Era tutto più semplice. Oggi, proprio perché i destini sono
individuali, succedono tante cose slegate tra loro, apparentemente. La tragedia di Vermicino forse non era
scientemente in ragione della TV annebbiante. Era compassione, ma da lì si capisce
che si è svoltato. Inizia la tv commerciale. Si capisce che la tv è la nuova
piazza virtuale.
Commuove più la parola o l’immagine?
Nel caso di questo voyeurismo
delle tragedie c’è una sorta di esorcismo. Per esser certi di essere diversi,
tutti noi abbiamo dentro un mostriciattolo. L’immagine.
Tutto molto agghiacciante. Si è salvato qualcuno?
Non è stato facile trovare la
chiave del forziere Berlusconi. L’abbassamento del gusto non ha generato una
generazione di politici. Prima erano colti, i parlamentari. Vent’anni di
berlusconismo hanno prodotto questo. Oggi, poi, i ministri renziani sono
ventriloqui di Renzi. Forse l’unico che si salva è Padoan. L’economia in
mancanza di idee vince. È una crisi culturale.
È la generazione degli anni ’50 che ha prodotto tutto ciò?
Sì, questa generazione è stata
encomiabile per sacrificio. Ci han fatto diventare la sesta potenza del mondo.
Poi, dopo si è solo consumato. Renzi sbaglia a contrapporre le generazioni. Dal
punto di vista sociale i nonni sono il welfare dei giovani.
Che cosa succede a Domenico ad un certo momento?
Nanni arriva ad una conclusione.
Questo mondo che lui ha contribuito a creare è una sua sconfitta e una sua
vittoria. Sposa una ciellina perché nella vita bisogna avere punti di
riferimento. Ho scelto i cattolici più incistati appositamente. Questa ragazza
diventa necessario punto di riferimento. Capisce, grazie a Corlaita, che ci
vuole disciplina a questo mondo. Che guizzare da tutte le parti non serve.
Bisogna trovare società gregarie.
Questo finale era da imboccare?
Il finale è il delirio. Scomparsa
della realtà. La stessa cosa che è accaduta nella finanza. Denaro inventato con
un clic. Si poteva creare denaro anche senza averlo. Una economia sul niente.
Un artificio. Il contrario della madre di Nanni.
Perché non hai dato delle speranze?
La speranza nasce successivamente
quando hai fatto i conti con la realtà. È una crisi economica. Bene. Se quella
ricetta economica ha fallito (il liberismo economico) perché reiterarlo? Quale
speranza c’è se continuiamo a riproporre lo stesso meccanismo? Oggi ci sono solo
delle allergie, questo sì. Podemos, Syriza, altri. Fame di reazione che però
non sono ancora alterità.
La sensazione è che è stato tutto troppo. Si fa fatica a leggere.
Lascia l’amarezza del niente. Pensi di aver fatto un’operazione che porti
qualcosa per il futuro ai tuoi lettori?
Volevo dare una scossa elettrica.
Mi piace anche il giudizio negativo, nel caso. Fa riflettere. Avrei voglia di
libri. M’impegno e cerco di fare bene il mio mestiere. Cerco la verità. Non mi
pongo il problema di un libro che mi debba dare speranza. Ma il finale de Il
rivoluzionario vale ancora. Quella fiammella lì, qualcuno la prenderà. Il fatto
che in giro ci siano otto milioni di poveri peseranno pure politicamente..
Valerio, ma li facciamo quattro amici al bar?
Ci sto.