Non andare cercando quale sorte il destino ha assegnato a me, a te; non consultare i maghi d'Oriente. E' meglio - vedi - non sapere; è meglio sopportare quello che verrà. Forse molti anni ancora stanno davanti a noi; forse questo inverno, che le onde del tirreno fiacca su la scogliera, è l'ultimo. Ma tu ragiona, vivi felice, e, poiché breve è la nostra vicenda, non inseguire i sogni di un futuro lontano. Ecco, mentre noi parliamo, il tempo invidioso se ne va. Cogli questo giorno che fugge, e non fidarti mai del domani.
(da Orazio, Odi, I, II)

venerdì 22 novembre 2013

Un altare per la madre, Ferdinando Camon

Quello che mi è capitato tra le mani è un libro rivelazione. Non conoscevo Ferdinando Camon. Narra della morte della madre e della costruzione di un altare nel luogo in cui uno straniero, proprio dalla madre, era stato salvato. 
Il libro è breve, ma denso di poesia e semplicità. Vi bastino frasi come La bara avanzava ondeggiando e Invecchiò presto. E' commovente, ma non ho pianto.
E' un libro contadino. 
Mi ha colpito come per tutto il racconto la donna sarà sempre la madre e non mia madre (di chi racconta). Forse è solo una traslazione dialettale, perché altrove si rinviene anche il padre e la sorella, ma ai fini della storia quell'indeterminatezza, che è pure coralità, acquista la potenza precisa del messaggio: abbiamo tante occasioni per meritare di restare in questo mondo anche dopo. Per meritare il nostro altare. 
Inutile dire che la scrittura di Camon è limpida, senza vane arzigogolature.

domenica 17 novembre 2013

Sopravvissuta ad Auschwitz, Eva Schloss

Il sottotitolo di questo libro è La vera e drammatica storia della sorella di Anne Frank. E ancora Una storia che inizia dove drammaticamente il diario di Anne Frank finisce. Il lettore deve fidarsi della sua memoria prima di leggere la seconda di copertina. Non è la storia di Margot Frank. E' la storia di Eva. Sua madre sposò il padre di Anne.
A caso, mi sono ritrovata a iniziare a leggere questo libro da uno degli ultimi capitoli, Tornare, e mi ha commosso. Ho riconsociuto le sensazioni, sono tornata a sentire l'orrore calarmi addosso, con in più tutta la pena per questa donna che ad Auschwitz tornava da sopravvissuta. In questo capitolo Eva dice che non ha provato alcun senso di risoluzione tornandoci, e le credo. 
Poi ho letto il libro dall'inizio alla fine, com'è normale. Ci sono capitoli, pure tragici, ben lontani dalla commozione finale. L'ho addebitato al fatto che il libro è stato scritto a quattro mani con una giornalista. Ci sono insinuazioni e brevi generalizzazioni buttate qua e là. Tracce di moralismo odierno che nulla c'entrano con l'Olocausto e la Memoria. Ma ciò che mi è dispiaciuto di più di questo libro è la diffidenza continua verso il lettore.
Infine sono arrivata all'ultimo capitolo. Un paragrafo recita così. 
Milioni di persone visitano Auschwitz ogni anno e ho sentito dire che c'è un'enorme calca che attraversa l'ingresso e si aggira per il campo indossando le cuffie di un tour guidato. Ho conosciuto delle persone, alcuni di loro ebrei, che visitano molti siti di campi di concentramento, ricavando una sorta di eccitazione dall'orribile sensazione di trovarsi in mezzo a morte e terrore.  
Alcuna eccitazione, Eva. E' davvero un viaggio educativo, di memoria, commemorativo. Non un tour, le cuffie sono di supporto alla percezione del dolore. La gente non si aggira ad Auschwitz. Segue un corteo funebre ben composto nel quale si percepisce tutto il senso del limite del proprio essere al mondo.

giovedì 14 novembre 2013

Saviano legge Levi, Se questo è un uomo

Qui.

Anche per me è uno dei libri maestri. Rileggerlo dopo aver visto Auschwitz davvero dà la misura dell'uomo, di ogni sua capacità, positiva e negativa. 


E' uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell'uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce. 

In mezzo alla solitudine di Auschwitz - Birkenau queste parole mi sono risuonate vivide, anche senza memoria di lettura.

mercoledì 13 novembre 2013

il gesù di tutti, vittorino andreoli

Quando, a diciotto anni, da credente, da chi crede di credere, sono passato nella schiera di coloro che credono di non credere, Gesù non è sparito dalla mia vita, ha continuato ad esistere come uomo davvero speciale, ha continuato a essere presente in me e a esercitare il suo fascino.

Secondo Andreoli tre sono gli atteggiamenti rispetto a Gesù:
- quello dei credenti, che hanno esperienza personale diretta di lui e ne possono parlare (Paolo di Tarso, Manzoni ad es. illuminati di colpo)
- quello dei non credenti, che non hanno tale esperienza e per credere non basta volerlo, bisogna fare esperienza
- gli atei, che negano esista un problema della fede. Per loro i credenti sono degli illusi.
Vittorino ha rispetto per chi crede e, non avendo oggi l'esperienza di Gesù, ne ha voluto parlare come uomo, e come uomo Gesù per lui rappresenta l'uomo ideale e si immagina di incontrarlo. Gesù che va da lui, nel suo studio, tace, si guarda attorno e non risponde all'invito che gli fa di sedersi e di parlare, come farebbe un qualunque paziente. Il silenzio di Gesù lo imbarazza prima, poi lo fa sentire inutile come psichiatra. Anzi si sente interrogato lui dallo sguardo di Gesù e alla fine si ritrova seduto lui, Vittorino, sulla sedia del paziente e Gesù su quella del medico.
Nella metà dell'800 molti psichiatri hanno fatto una diagnosi su Gesù, che è risultato un paranoico religioso.
Paranoico è uno che ha di sé una grande idea e vede la realtà come qualcosa da dominare.
Per Vittorino Gesù non ha nulla di paranoico, non si vanta di aver fatto miracoli, dice che le cose belle le fa la fede e non lui, dice "tu puoi" e non "io faccio". Gesù va a Nazareth e tutti lo vedono come il semplice figlio di un falegname e di Maria, non hanno fede in lui e lui allora non riesce a far miracoli di fronte alla mancanza di fede. Gesù si mostra ed è fragile, ha paura, si sente abbandonato, ha sete.
Gesù per Vittorino è sano di mente, non è normale (nessuno vorrebbe essere definito normale, in realtà), è strano, ma nel senso di straordinario, eccezionale.
Gesù rifiuta il potere perché crede che l'unica forza che può far vivere bene è l'amore, verso tutti, compresi nemici e peccatori, e poi il perdono, che è molto più bello della giustizia. Gesù sa perdonare anche senza sapere il peccato di chi perdona. Non c'è in lui giudizio. Non ama il potere, che invece oggi è la vera malattia sociale.
Gesù ascolta tutti, soprattutto chi soffre. 
Questo fa anche lo psichiatra che vien toccato dal dolore e dalla follia. Vittorino è molto colpito dalla sofferenza, anche da quella di coloro che fanno violenza. Se si vuol capire la violenza, prima bisogna capire cos'è la paura. La condizione umana è di sofferenza, il male ci travolge nel quotidiano. L'uomo attaccato nel vuoto a un filo di ragno, dice Ungaretti.
La sofferenza è un mistero, però Vittorino sa cos'è la GIOIA. Che non è la felicità, che si spegne un attimo dopo che l'occasione è passata. La gioia non è legata a un fatto passeggero e neanche al singolo individuo, ma è qualcosa di corale e quindi di perdurante.
Vittorino vorrebbe incontrare Gesù non mentre ha paura, non in un momento di dolore, ma quando è nella gioia. Perché nel dolore si è deboli. La paura può rendere amico anche un nemico. Molte esperienze di conversione o di entrata nella fede sono legate al dolore (pensiamo a Lourdes) e la chiesa si è servita tante volte del dolore senza tener conto di Gesù.
Infine, secondo Vittorino, gli altri papi forse possono somigliare di più a Dio, il papa di oggi somiglia di certo a Gesù.

lunedì 11 novembre 2013

Da un'altra carne, Diego de Silva

Di nuovo, stasera, c'è Luigi. Anzi, ci aspetta come un guardiano del granaio all'ingresso. Marco non è solo, come uomo. Poi le donne, Maria, B.Lavinia, Sara, Sarah, Alessandra, Elke, Patrizia B. ed io.
Da un'altra carne è la storia della signora Ester, almeno su questo non hanno dubbi gli Itineranti, è lei la protagonista. Ester ha due figli grandi che vivono con lei, sembrano una famiglia normale. Ma la normalità perde l'equilibrio quando uno dei figli porta a casa un bambino. E quai tutte le domande su questo bambino, ma anche altre nella storia, restano senza risposte.
Non si tratta di dimenticanze dell'autore. Ci mostra in più occasioni che è capace di anticipare antefatti preordinati perfettamente ai fatti, vedete ad esempio la scena della benzina. Poi, per il resto sembra più interessato a consegnare al lettore semplicemente dei personaggi col loro travaglio interiore, in particolare quello della signora Ester, senza curarsi delle risposte disattese. E se il suo intento voleva essere quello di mettere in guardia che accadono cose così, esistono cose così, be' io della signora Ester ho avuto proprio paura.
Maria concorda con la realtà data, consegnata, senza urgenza del prima e del dopo. La fa arrabbiare la signora Ester che non ha un comportamento normale quando il figlio le porta il bambino. Poi è succube di questo figlio capace di ributtarle addosso tutte le colpe in ragione di una colpa più grande, di una colpa antica. Come se dovesse qualcosa a questo figlio. Come se questo figlio, davanti al suo amore, avesse sempre tentato la fuga. Infine arriva il bambino, Salvino, a frapporsi in quell'amore già difficile. Salvino è però la creatura salvifica del dramma.
Si resta a bocca asciutta però. Cosa voleva dirci? si chiede Sarah. E il bambino chi è? Fa eco Elke. A Luigi è parso che la storia manchi del pezzo più importante, quello che gli avrebbe dato la visione generale del libro. Gli avrebbe fatto piacere trovare una postilla, dopo. O aver avuto dei confini entro i quali avrebbe potuto muoversi più disinvoltamente come lettore. Per rispondere a una delle tante domande si è immaginato un incidente in cui hanno perso la vita i genitori del bambino e Guido non ha potuto fare a meno di portarselo a casa.
Quasi tutti però pensiamo che il bambino sia il figlio di Guido. Non si sa con chi e dove lo tenesse, ma siamo quasi certi sia suo figlio.
Marco ha pensato ad un viaggio immaginario, quello di Ester su in montagna. Il bambino aveva sballato gli equilibri della casa, seppure inconsistenti, e lei è uscita di testa. L'immagine a scatti del bambino che scompare gli ha fatto pensare così. Poi anche i tempi. In effetti sui tempi di rientro (alle due e un quarto il bambino era già a casa) abbiamo ragionato tutti. A meno che, continua Marco, il bambino non sia stato riportato a casa dai fidanzati cui la signora Ester aveva chiesto informazioni e allora si deve ricredere sul fatto che il bambino realmente fosse con lei. Eccola una risposta, forse.
Sara dà una buona interpretazione. Tutta la storia è una metafora. E' la paura che abbiamo di fronte allo straniero e al nuovo. Salvino non ha storia perché c'è solo per salvare Ester.
Ma si salva? Chiede Patrizia. E prima che Maria le risponda le chiediamo se l'ha finito, il libro. Ridiamo. Poi Maria dice che sì, il bambino è accolto e lei è salva. Ma è salva solo dopo aver toccato la sua miseria, dopo che le è stata condonata la sua miseria.
Elke ha avuto il dubbio che la signora Ester fosse malata, poi ascoltandoci l'ha definitivamente fugato. Sarà malata forse, dentro, ma ciò che le scatena quella cosa terribile è la figuraccia che ha fatto con il vicino e mentre la compiva non ne capiva la gravità.
Già. Qualcosa di simile l'abbiamo trovato anche in Atti Mancati, che per coprire una colpa leggera se ne commette una grave.
Alessandra e Lavinia ancora lamentano le troppe risposte mancate.
Lucio chi è? Il titolo perché è Da un'altra carne? Diego, siamo qui, parlaci.
Sembrava che il libro non fosse piaciuto all'inizio, tutti abbiamo fatto il confronto con Mancarsi. Ma, messo il cuore in pace sulle domande irrisolte, il libro invece è piaciuto, ha generato una bella discussione e ci ha regalato brani di poesia pura. Vedi quello breve sulla felicità, quando si è esattamente dove si vuole essere; quello sulle separazioni che vivono di lontananze e sono vecchiaie accompagnate per mano; sul passato pieno di dispiaceri che ci ingannano con la dolcezza; cose così. È chiaro che se uno vuole leggere in leggerezza, non è questo il libro.

domenica 10 novembre 2013

Quel libro, quella volta...con Grazia Verasani

Seguendo Grazia la si scopre sempre più donna di grande spessore, di sostanza, che sa dire cose toste con flemma sorridente. Oggi, alla libreria coop Zanichelli di Bologna, ha raccontato di quel libro, quella volta...  
Il libro prescelto è Il viaggio al termine della notte di Céline, uscito nel '32. Lo ha presentato con una ricchezza di riflessioni, osservazioni, puntualizzazioni da far venire voglia di leggerlo.
Il romanzo di Cèline è una sinfonia emotiva, quasi uno spartito musicale. Meglio, una rapsodia, cioè un componimento libero da ogni schema. La punteggiatura ricca di esclamativi e di puntini di sospensione è anch'essa una punteggiatura musicale. Céline diceva sempre che il primo uomo per prima cosa non parlò, ma cantò ( mugolii, versi per spiegarsi, non parole, quindi era musica). Le origini del linguaggio allora furono musicali.
Il protagonista, Céline, non è protagonista, ma testimone. Così la descrizione appare distaccata, mai giudicante, mai cinica. Noi non siamo i giudici, siamo i condannati.
Libro tenero e poetico, anche se apocalittico.
Nel romanzo c'è odio per la guerra e tanto amore per l'altro, senso di appartenenza all'altro.
Sceglie i perdenti, Céline, perché Se non si può essere felici, si può cercare di essere meno infelici. 
Il senso della vita è smarcarsi dalla finzione.
Secondo Grazia è un autore inimitabile. Leggerlo oggi è come leggere un classico. E' ritrovare la bellezza di uno stile non c'è più. Oggi vive la semplificazione del linguaggio, non si vuol fare fatica, si vuole leggerezza che diventa superficialità, il mercato che tende a non farci pensare e vuole acchiappare da tutte le parti, ogni lettore. Chi ama pensare invece, scavare, deve trovare libri che lo permettono e forse, per questo, bisogna tornare al passato.
 Céline ha attraversato una guerra vera, noi siamo invece in una guerra fredda. Viviamo in una realtà menzognera, sappiamo che dobbiamo sospettare di ogni notizia ci venga data. Viviamo in uno stato di confusione, non sappiamo più cos'è sinistra e destra, cos'è bene e male. Siamo statici, abbiam perso la voglia di movimento.  
Grazia non fa mistero di scritti antisemitici di questo autore, ma invita il lettore a leggere il romanzo per quello che è, un libro catartico rispetto alla morte, un libro che mette le mani nel corpo, nelle viscere, in quelle dei feriti in guerra. Nella notte infinita, le mette.
Ringrazio Maria per avermi raccontato di Grazia.
 

Storia di Irene, Erri de Luca

E' la storia di Irene, appunto, una ragazza che ha gli occhi tondi dei pesci. E' stata salvata dai delfini e con loro vive di notte, di giorno invece sulla terraferma di un'isola greca. Consegna la sua storia a un narratore, Erri de Luca che nel libro interpreta se stesso.
 
Peccato. E' un libro di faticosa lettura, seppure breve e tralasciando la storia inverosimile. L'ho pensato come un inno al mare, a questa immensità sorella maggiore del grembo materno. Il pezzo sul Mediterraneo buttadentro è unico e bellissimo, ma poi bisogna continuamente tornare indietro a rileggere.
Oppure ad una favola, ho pensato, vista la zoomorfizzazione della ragazza. Però manca di avvenimenti semplici e veloci, non c'è una morale, il narratore non conosce la fine, lo dice. Sì, ci sono frasi brevi, fulminanti, ma che non restano per quanto sono state limate.
 
In appendice altre due brevi storie, la traversata di cinque scampati alle rappresaglie naziste e il ricordo di un vecchio davanti al mare.
 
Peccato davvero. Pare che l'autore abbia voluto sentirsi scrivere invece che farsi leggere.
 
 
 

domenica 3 novembre 2013

E i bambini osservano muti di Giuseppe Marotta


 
 
 
 
Sabato 30 novembre 2013
ore 16.30
presso la sede Acli di via Lame 116 a Bologna

Itinerari di Lettura 
incontra 

Giuseppe Marotta
con il suo romanzo d'esordio 
E i bambini osservano muti
 

Una storia di mafia raccontata da Remì, un bambino di dieci anni.

venerdì 1 novembre 2013

La misura di tutte le cose

Anni fa, almeno dieci, ho letto un interessante libro sulla avventurosa storia del metro. Oggi la cronaca politica me l'ha rievocato. E' un gioco mentale, quello di dare titoli di libri alle persone o alle cose che accadono. La misura di tutte le cose. E non sto a tediarvi con la vicenda del nostro Guardasigilli. Ma ho trovato interessante, addirittura fulminante, tornare a sfogliare il libro e trovarvi delle associazioni tra unità di misura e giustizia che, evidentemente, la memoria tratteneva, a mia insaputa. E' pur vero che il simbolo della giustizia è una bilancia.
 
Per essere operative le misure devono essere assunti condivisi.
Nell'Antico Testamento si trova l'ammonimento "Non commettere ingiustizie nei giudizi, nei pesi o nelle misure di capacità. Avrete bilance giuste, pesi giusti, ephah giusto, hin giusto".
Le nostre unità di misura definiscono l'essenza e il valore dell'essere umano.
 
Vi racconto brevemente di questo interessante libro.
Nel XVIII secolo le unità di misura differivano non solo da nazione a nazione, ma anche al loro interno. Questa diversità ostacolava e impediva una razionale amministrazione dello Stato e dunque, almeno per le unità di misura, il buon senso reclamò un sistema coerente.
Per sette anni due astronomi viaggiarono lungo il meridiano terrestre per ottenere dalla superfice curva del nostro pianeta un'unica cosa: il metro. Una impresa straordinariamente delicata mentre si era in Francia e il mondo girava attorno alla ghigliottina. Il frutto delle loro fatiche fu conservato in una barra di platino puro lunga un metro, appunto. Ma uno dei due astronomi aveva commesso un errore nella misurazione. Soprattutto si era accorto dell'errore. Morì nel tentativo di correggerlo, quasi sull'orlo della follia. Il risultato è che il metro è in errore. E il significato della sua storia è che le persone lottano per la perfezione, poi in-evitabilmente vengono a patti con le imperfezioni. Così, alla fine, è l'uomo la misura di tutte le cose.  
 
La misura di tutte le cose di Ken Alder
 
 
 

incontro di novembre

Lunedì, 11 novembre

Discutiamo il secondo libro prescelto di Diego de Silva, Da un'altra carne.

Alle 19.30 in via Lame 116.

Il bordo vertiginoso delle cose, Gianrico Carofiglio

E' bello malinconico l'ultimo libro di Gianrico. Te ne accorgi subito, appena Enrico prende un treno per tornare a Bari, dove è cresciuto, ha frequentato il liceo, si è innamorato la prima volta e ci ha lasciato un fratello che non vede da anni.
Un uomo malinconico parte in treno infatti, e si perde a guardare fuori dal finestrino.

Il Caso ha deciso il ritorno, e non solo quello. Una notizia sul giornale. Enrico si lascia guidare. Gianrico poi guida il lettore. Senza presunzione, neppure supponenza, gli prende la mano, gliela stringe di più sul bordo vertiginoso, e gliela lascia solo dopo l'ultima pagina.

La storia è tra presente e passato, narrata con la maestria della prima e della seconda persona. Viene facile trovarvi una notte a Bari o il passato di ( è ) una terra straniera. Ma qui, sul bordo pure, c'è Celeste. Creatura fantastica che fa venire voglia di riprendere in mano presocratici e sofisti, e arrabbiarsi della manomissione del termine sofisma. E c'è Stefania, che in poche battute fa riflettere sulla responsabilità della vita.

Un bel tributo a cinque grandi incipit della letteratura, a cinque donne rivoluzionarie, a Linus e a qualche opera dimenticata che un attento lettore andrà sicuramente a rinvangare. Forse anche a Simenon con quella cosa della colazione. Tutto perfettamente incastrato.

Poi, quando il romanzo finisce, viene voglia di abbracciarlo, Enrico. O Gianrico.