Non andare cercando quale sorte il destino ha assegnato a me, a te; non consultare i maghi d'Oriente. E' meglio - vedi - non sapere; è meglio sopportare quello che verrà. Forse molti anni ancora stanno davanti a noi; forse questo inverno, che le onde del tirreno fiacca su la scogliera, è l'ultimo. Ma tu ragiona, vivi felice, e, poiché breve è la nostra vicenda, non inseguire i sogni di un futuro lontano. Ecco, mentre noi parliamo, il tempo invidioso se ne va. Cogli questo giorno che fugge, e non fidarti mai del domani.
(da Orazio, Odi, I, II)

lunedì 7 novembre 2016

In quel che resta del tempo

 
Maria, la nostra Maria, ha scritto un libro.
La storia di una donna, e di un barbone.
Mercoledì 9 novembre alla Libreria Le Trame in via Goito a Bologna si terrà la prima presentazione.
Alle 18.00, vi aspetto.

martedì 18 ottobre 2016

Lettera a Dina di Grazia Verasani

Presenti Sarah, Lavinia, Maria, Mario, Margherita, Giuseppina, Patrizia R., Marella, Mariateresa, Patrizia B., Elke, Barbara, Rosanna, Carla, Annalisa ed io.
Lettera a Dina è il racconto di un’amicizia trentasette anni dopo. Due ragazzine, molto diverse tra di loro, si incontrano per la prima volta in seconda media. Ne nasce un’amicizia duratura e travolgente, ossessiva e morbosa.
È stata Elke a proporci questo libro e le chiediamo la motivazione. Ci racconta di essere stata alla presentazione con l’autrice e di essersi incuriosita. L’autrice, nella presentazione, ha suddiviso il libro in due momenti. La prima parte caratterizzata da Dina. La seconda dalla voce narrante che è poi, senza alcun dubbio sia secondo Elke che secondo Maria, Grazia Verasani in prima persona. Ancora, che l’amicizia in adolescenza è religiosa. In età adulta diventa laica.
Per Sarah è stato un libro tossico, questo Lettera a Dina. E la tossicità è stata nel fatto che non le piacesse, non le è piaciuto, ma ha desiderato comunque arrivare alla fine.
Per Mario una prosa asciutta, semplicemente. Non è il suo genere di libro, ma vuole ascoltare i nostri commenti.
Secondo Mariateresa manca di intimità. Non si è annoiata nella lettura, l’ha letto tutto d’un fiato. Ma l’ambivalenza o ambiguità di fondo l’ha disturbata. Perché, se uno scrittore parla di sé, deve dirlo. Se decide di fare autobiografia e non vuole dirlo, allora adotta delle strategie. E la Verasani le ha adottate, vedi la relazione amorosa, lo psicanalista, la città che è evidentemente Bologna, nomi freudiani solo con le iniziali. Tutto per incentivare la curiosità morbosa del lettore. Infatti, il punto di vista di un’amicizia morbosa è tutto del lettore, non di Dina. Quella di Dina è semplicemente una dichiarazione d’amore che non riceve mai risposta. La parola chiave è dipendenza.
Carla ha trovato solo un rapporto molto sentito.
Patrizia R. si associa alla definizione di Sarah, di tossicità e aggiunge che la voce narrante, o Grazia, è stata tanto vicina a Dina da far diventare tossica la sua scrittura. Dina è ossessionata. Definire questo libro un racconto sull’amicizia è riduttivo. La mancanza di intimità lamentata da Mariateresa per lei è un’àncora di salvataggio del libro che altrimenti l’avrebbe disturbata.
Giuseppina riferisce di un libro che turba. Che racconta di un amore che non rende felici, di un bisogno di liberarsene senza riuscire a farlo. Dina succhia la vita. Affascina, ma non fa vivere chi sta accanto. E quindi, chi sta accanto, saggiamente, la lascia. Trova interessante il commento di Mariateresa e si chiede se, dunque, non abbia mai risolto quella storia perché innamorata. È un rapporto intenso quello tra le due ragazze. Così diverso da quello con R. Questo racconto è come se ci dicesse che, passato quel momento della vita, non sia più successo di provare quelle cose. Che, meno male, se le porta dietro.
Margherita è d’accordo con Giuseppina. È un amore perverso. Tra le due non c’è quella distanza che permette un amore equilibrato.
Marella ha letto di un’amicizia morbosa, non di amore. La tossicodipendenza, da cui è affetta Dina, è un problema degli anni di cui si narra. Ed è un problema di Dina, che ci si è trovata in mezzo per sua debolezza, non l’attribuirebbe all’amicizia. Ma quando Dina muore prima che l’amica potesse parlarle ancora, ecco che arriva l’ossessione. Arriva il senso di colpa.
Maria ha sentito l’amore di Grazia estremamente frustrato. Grazia ha rivendicato la prosa asciutta non piaciuta a Mario anche per via di questa frustrazione. Il punto è che, come dice lo psicanalista nel libro, l’amore non salva. Sembra banale, ma non è amore quando si richiede come salvazione. Legge a pagina 92 Maria. Tutte le domande su Dina restate senza risposta, dopo.
Annalisa crede di capire, ora, perché la Verasani alla fine non sia venuta ad incontrarci. È un libro troppo intimo. Un’amicizia femminile che è amore. È imbarazzante. È sconvolgente. È amore, appunto. Non si sente in colpa per Dina, la narrante. Ma per non aver detto a Dina del suo amore.
Rosanna è affascinata dall’operazione di scrivere ad una persona che non c’è più. Dina è la protagonista. Dina è bella perché l’altra la trovava bella e per questo aveva bisogno dell’amica. Il libro è un capolavoro perché è la necessità di elaborare il fatto che non tutto sia possibile, sempre.
Concordo con tutti i commenti, di quelli a cui il libro è piaciuto e anche di quelli a cui non è piaciuto. Perché non so dire se lo consiglierei, se lo sceglierei ancora. Ma di certo anch’io l’ho letto desiderando solo di arrivare alla fine. L’operazione cui fa riferimento Rosanna è necessaria per alcuni che hanno perso delle persone care. Si sente il bisogno di mettere le cose un po’ a posto e per questo, so per certo, che alla narrante od all’autrice, dunque al racconto, riservo tutto il rispetto che una tale operazione richiede. L’escamotage letterario di vedere la persona che ci manca credo sia un buon finale nella storia, che alleggerisce finalmente la morbosità angosciante di una cosa chiamata amicizia.
 
 

giovedì 1 settembre 2016

nona edizione, i gusti degli Itineranti

Sul finire dell'ottava edizione ci siamo interrogati sull'Itinerario da percorrere nell'edizione successiva.
Quello del romanzo storico ha spesso fatto intravvedere stanchezza, assenze dell'ultimo minuto per libri non letti o, addirittura, assenze definitive per il piacere di tornare a leggere ciò che, appunto, piace.
Ho chiesto suggerimenti agli Itineranti. 
Sono arrivate proposte di letture su temi come l'adolescenza o percorsi fuori dalla normalità, fiabe per adulti, la risata, il disagio, le biografie.
Alla fine la votazione di scelta è ricaduta su I gusti degli Itineranti. Che vuol dire che ognuno di noi propone un libro, di qualsiasi genere letterario. L'unica condizione restante è che l'autore sia italiano e vivente. Inoltre, il proponente si impegna a contattane l'autore per l'incontro di discussione.
Non si sono ancora espressi tutti, ma intanto sono arrivate queste proposte di lettura:
Elke, Lettera a Dina di Grazia Verasani

Marco, Mio fratello rincorre i dinosauri di Giacomo Mazzariol

Sarah, Il matrimonio di mio fratello di Fausto Brizzi

Rosanna, La prima verità di Simona Vinci

Alessandra, La vita felice di Elena Varvello
Annalisa, Ismail di Costanza Savini

Margherita, Il saltozoppo di Gioacchino Criaco

Giovanni, Alpi segrete. Storie di uomini e di montagne di Marco A. Ferrari

Maria Teresa, Tre noci moscate nella dote della sposa di Simona Cleopazzo
 
Possiamo cominciare.

 

lunedì 27 giugno 2016

ci vediamo a settembre 2016


La serata di saluto dell'ottavo itinerario si è svolta nell'accogliente casa di Giuseppina. Una pizza che non arrivava mai, una crostata di prugne selvatiche fatta da Rosanna e tante chiacchiere. Bello. Grazie.
In questa ottava edizione abbiamo scelto, tra qualche malumore, l’itinerario del romanzo storico. Non è stata facile la scelta dei libri da leggere perché, nella definizione del genere prescelto, sono confluite diverse interpretazioni. Abbiamo anche chiesto ragione a Marcello Fois ed a Valerio Varesi, che questa edizione l’hanno aperta.
Secondo l’assunto manzoniano, un romanzo, perché sia definito storico, dovrebbe rispondere a tre coordinate: vero per soggetto, interessante per mezzo, utile per iscopo.

Allora, certamente è capitato di leggere libri che sfuggono alle famose coordinate. Che non ci hanno dato sicurezze cognitive, pur pretendendo di riferirsi alla realtà. Che non sempre ci hanno restituito autenticità, pur evocati da documenti. Che, proprio a causa di questi documenti, si sono confusi od hanno finito per sembrare dei saggi storici.

È stato utile? Senza alcun dubbio. Ho stima profonda dei miei Itineranti. Ho consapevolezza che il nostro punto di vista sul mondo non derivi solo da testimonianze, più o meno autentiche, ritrovate nelle letture. Derivi, invece, dal raccontarci in continuazione, dall’ascoltare voci. Le nostre. Non smettere anche quando possiamo anticipare il pensiero di un altro. Non è scontato quello che può arrivarci.
Ci vediamo a settembre con Storia di Caterina e La vita al rovescio ed i loro autori.

lunedì 6 giugno 2016

La strage dimenticata, Andrea Camilleri

Solo a mezzogiorno arriva la notizia che la sala non sarà disponibile questa sera. Ci rincorriamo un po’ tra messaggi ed e-mail per decidere il da farsi, quando Giovanni ci offre la soluzione offrendoci il suo studio. Staremo stretti, dice. Invece siamo stati comodi e a nostro agio col verde prorompente fuori dalle finestre e gli uccelli e il loro canto a colmare brevi silenzi.

Siamo non in pochi, nove, ma neppure tanti. Degli assenti soffriamo sempre la mancanza. Naturalmente è presente il padrone di casa, Giovanni. Poi, Giuseppina, Patrizia R., Maria, Patrizia B., Sarah, Marco, Annalisa ed io.

Abbiamo letto un altro Camilleri, accidenti. Penso ad Alberto che l’aveva proposto sin dal primo incontro in quel dicembre del 2008. Ce l’abbiam fatta, Alberto, vedi? E non è andata male col tuo illustre conterraneo.

La strage dimenticata nei Meridiani Mondadori, di cui Giuseppina mostra una copia, viene annoverata nella raccolta di romanzi storici e civili dell’autore. Non conoscevo l’esistenza di questa raccolta, ma sin dalla prima lettura del libro, già nell’ottobre 2014, sono stata convinta dell’appartenenza al genere romanzo storico. Pochi altri la pensano come me, stasera.

Proviamo ad inquadrare il racconto, intanto. Camilleri ci parla di una strage dimenticata, anzi due. Una avvenuta a Borgata Molo, l’altra a Pantelleria. Della prima abbiamo solo un elenco di morti e pochi, laconici verbali; della seconda, il registro municipale dei morti è stato fatto sparire. E il racconto che ne risulta, è come una lunga parentesi dell’autore. Alcun documento. Solo pensieri dell’autore.

Il periodo storico delle due stragi è quello dei moti del ’48. A Borgata Molo morirono centoquattordici persone, servi di pena, soffocate come topi in una prigione. La prigione descritta da Camilleri toglie il respiro, nel vero senso della parola. Soffoca. E soffocò. A Pantelleria ne morirono quindici, rinchiusi e sparati dentro una stanza. Quelli che solo per voce popolare avevano partecipato all’ammazzatina del capo della polizia.

Annalisa l’ha sentito tutto il respiro che mancava e ha dovuto fare una pausa nella lettura. La descrizione della prigione le ha messo paura. L’ha colpita la colpa che gira nel romanzo, e il fatto di fare altri morti per eliminare colpe di altri. Per fortuna, dice, la seconda parte, che è la chiusura della calunnia, con qualche fatterello, qualche ironia, è risultato più leggero. Anche se sembra una presa in giro la spiegazione dello storico, di Camilleri, fatta così con leggerezza, con ironia.

Giovanni più che ironico, trova il racconto sarcastico. Proprio perché la storia è talmente terribile che gli risulta difficile raccontare. Per lui il romanzo storico c’è tutto, perché aveva un solo documento l’autore su cui ha lavorato di fantasia.

Sarah si annoia a leggere fatti raccontati così. Lei ama i dialoghi. Sulla leggerezza anzidetta da Annalia, ritiene che più le cose sono gravi e più, generalmente, si tende a mantenere un profilo bassissimo, per non attirare l’attenzione e lasciare che il silenzio ammanti tutto. Forse l’autore voleva trasmettere questo.

Giuseppina è stata colpita dalla distinzione dei delitti. Abbiamo detto che i morti di Borgata Molo erano carcerati. Il delitto che attenta alla proprietà era considerato il più grave e punito più severamente. Mentre per le lesioni gravi, che attentavano alla vita, era prevista una pena di gran lunga inferiore. Inoltre, per i reati contro la proprietà, che presupponevano un certo grado di istruzione in chi li commetteva, la pena prevista era veramente piccola. Il ladro che li commetteva, infatti, era considerato molto vicino, come classe, a coloro che avevano redatto i codici. Giuseppina non ha capito se la presa d’aria nella prigione non sia stata lasciata per ignoranza od altro. Una ignoranza iniziale, indubbiamente, che diventa scelta precisa.

Patrizia R. ha faticato, pur con l’amore scoperto per Camilleri, perché, ad un certo punto, le è sembrato un suo puro divertimento, il racconto. Le è sembrato che gli sia capitato tra le mani questo documento, l’elenco dei morti, e abbia ragionato solo sul cosa poteva farsene, come utilizzarlo. Le è arrivata una specie di leggerezza delle cose. Solo che qui, anziché sembrare leggere, le cose, sembrano ancora più tragiche. Le sembra non ci siano mai state cose così. Ma un pensiero è andato ai migranti in questi giorni.

Anche Marco ha pensato ai migranti. A lui il libro è piaciuto soprattutto perché gli ha lasciato un senso di gratitudine profonda verso l’autore che l’ha messo a parte di queste storie, come già aveva fatto Deaglio con la storia dei fratelli Defatta. Gli è piaciuta la lista dei nomi con l’età. Come a voler sottolineare che ogni vita è preziosa. Gli ha stimolato interrogativi rispetto all’importanza che ogni persona ha. Gli ha mostrato ancora una volta quanto gli uomini siano impietosi con gli altri uomini. È un richiamo fortissimo alle proprie responsabilità, questo racconto. Tornando ai migranti. Vediamo i barconi, li vediamo tutti i giorni, ci chiediamo cosa possiamo fare, ma già cancelliamo la risposta.

A proposito dell’elenco dei nomi, Patrizia R. ha voluto leggere a voce alta.

Maria non è d’accordo con me con l’appartenenza al genere romanzo storico, continua ad avere l’idea che questo genere sia altro. Ma ritiene che tutto quanto è stato detto stasera sia sacrosanto. Soprattutto è stata profondamente colpita dal senso di soffocamento provato da Annalisa. Per lei il libro resta una ricerca storica, un documento, ma deve ammettere che la denuncia contenuta, il fatto, la tragedia, siano sconvolgenti. Ed è felicissima di averlo letto. Perché, come per Deaglio, per Castellina, le cose raccontate non possono non interrogarti. Le hanno dato fastidio i tecnicismi, per cui sono stati i benvenuti l’ironia e il sarcasmo da un certo punto in poi. Avrebbe voluto trovare un pezzettino di vita di tutti i nomi elencati. Così, la prende solo come una storia atroce, ma nulla di più.

Patrizia B. è venuta ad ascoltarci.

A parte la dichiarazione dello stesso autore in diversi punti del libro, di una soluzione romanzesca della storia, di una ricostruzione a favore della fantasia e non del judicio, e il fatto che non abbia la testa e lo stomaco di certi storici, io, come ho detto all’inizio, resto convinta dell’appartenenza al genere che stiamo leggendo. E non per atto di fede alle dichiarazioni di Camilleri. È vero. Ci sono anche i verbali oltre all’elenco dei morti, almeno per la prima strage. Le vite accennate ci sono, anche in una breve frase, in una parola. Questi carcerati che diventavano maestri dell’artigianato me li sono immaginati. Ho provato a delineare chi aveva costruito i due altarini nella casa di Carolina Camilleri, sicuramente un servo di pena paziente. E chi aveva lasciato quei quaderni nella torre. Un servo di pena romantico. Credo che la difficoltà nel rinvenire il romanzo sia data dalla stringatezza del libro. Riguardo ai tecnicismi, che indubbiamente ci sono, penso che facciano parte del racconto storico, inevitabilmente, che si ama oppure no. La lingua non è ancora quella del Camilleri più recente. E sì che questo è un libro di più di trent’anni fa, dove forse l’autore stava ancora cercando un suo modo, ma anch’io, come Marco, sono grata a chi racconta. In qualsiasi modo, mi verrebbe da dire. Come Marco ho sentito forte il richiamo alle responsabilità, al non nascondersi dietro all’inconsistenza del o si faceva la scala o si faceva la presa d’aria.

Sul finire dell’incontro parliamo dei migranti. Tutti ci diciamo scandalizzati dalle scene raccapriccianti che i media ci restituiscono. Poche sere fa ho pianto su uno spettacolo messo in scena da studenti sulle migrazioni. Ma poi, come ha chiesto Annalisa, quanti di noi farebbero davvero qualcosa?

Due merli si rincorrono chiassosi.  

lunedì 16 maggio 2016

La rivoluzione della luna, Andrea Camilleri

In attesa che arrivino tutti, proviamo a mettere giù nuove proposte di lettura per il prossimo incontro, ormai l’ultimo di questo ottavo itinerario. Non solo. Anche del nono, visto che si vuole ancora leggere. E per molti anni.

Per il prossimo incontro viene accolta la mia proposta, un nuovo Camilleri. Mentre per il nono itinerario viene accolta la proposta di Sarah che ha avuto una idea geniale che accontenterà tutti: i gusti degli Itineranti. Ogni lettore proporrà un libro, non importa il genere letterario. Un libro che gli piace. Restano ferme le condizioni, di autore italiano e vivente. Chi propone il libro si incaricherà anche, se riesce, di contattare l’autore ed invitarlo alla nostra discussione. Altre proposte, non accolte, sono state la risata, il disagio, l’adolescenza, le fiabe per adulti, le autobiografie.

Intanto sono arrivati quasi tutti quelli che ci saranno questa sera. Maria, Patrizia R., Giuseppina, Margherita, Alessandra, Marco, Lavinia, Sarah, Annalisa, Rosanna, Giovanni.

Camilleri è stato un rischio col suo italiano siciliano. Per tanti stasera presenti un battesimo, non andato male per fortuna. Per Patrizia una vera e propria cotta a prima lettura.

La storia narrata dall’autore è quella di Eleonora, vedova del viceré di Sicilia don Angel de Guzmàn. Siamo nel 1677, quando per la prima volta e per pochi giorni, un ciclo lunare, la Sicilia ebbe un viceré donna. Donna Eleonora, appunto, che don Angel si era premurato di indicare come successore alla sua morte. Il nuovo viceré deve scontrarsi con l’illegalità diffusa, con desideri corrotti, con la profanazione di giovani donne in luoghi che avrebbero dovuto proteggerle, col popolo affamato da una tassazione schiacciante.

Sarah lo dice che è di parte, che a lei Camilleri piace sempre. Ma qui l’ha apprezzato ancora di più, perché riesce ad essere leggere, sempre, anche raccontando nefandezze indicibili. Poi, sempre critico. E a chi fa notare la difficoltà della lingua, il siciliano, restituisce che le è stato più faticoso lo spagnolo. In effetti molti dialoghi di Eleonora sono in spagnolo, e la difficoltà di lettura è stata reale.

Patrizia ha trovato affascinante la descrizione dell’ascesa di questa donna. Sullo stile, l’ho già anticipato, ha preso una cotta per l’autore perché il dialetto è molto, molto di più della lingua che usa. È come un film in bianco e nero che perde l’essenza se lo si colora. La lingua è un romanzo nel romanzo, e c’è una specie di saggezza nel suo uso.

Maria aveva saltato la prima parte per andare a cercare subito Eleonora. Poi, poco fa, mentre ci aspettava, si è accorta di aver perso della descrizioni di don Angel bellissime. Era molto diffidente, nel senso che non si fidava di sé, ma ne è stata assolutamente conquistata. Non ha potuto godere della lingua, sebbene abbia avuto più difficoltà con lo spagnolo, ma si è divertita come fosse a teatro. Ora è orgogliosa di aver superato l’ostacolo, ma, deve ammettere, che la storia non le ha lasciato molto. Le è sembrato un romanzo sull’astuzia di una donna, più che la storia di Eleonora.

Giuseppina trova che il libro si legga, non lo ha finito solo perché presa da altre cose. Anche lei ritiene che non lo si gusti del tutto. E che per trattenere qualcosa ha dovuto leggerlo ad alta voce. Secondo lei è un libro che non favorisce l’introspezione, perché si resta un po’ all’esterno. Poi, Camilleri è un autore che ti porta dove vuole lui. Sul dialetto dice che nella lingua che ci è propria si riescono a dire cose atroci con facilità.

Lavinia non ha capito se le piace o non le piace, il libro. Un po’ si è persa, ma le è venuta la curiosità di documentarsi su questa storia originale, scritta in maniera originale.

Annalisa ha sentito stanchezza perché la storia ha tirato fuori di tutto di più. Una storia utile, comunque.

Marco ha elogiato il dialetto così espressivo, Alessandra pensava di far fatica e invece no.

Rosanna gode moltissimo delle spiegazioni di Camilleri all’inizio della puntate su Montalbano, il telefilm. Ma non ha capito cosa ci sia di vero in questa Eleonora. Sicuramente il lettore è stato graziato, perché l’autore ha avuto l’accortezza di scrivere il dialetto in forma orale, così come si legge.

Margherita è rammaricata perché tutto, poi, torna come prima.

Già. Eppure io ho ammirato tantissimo donna Eleonora, il suo procedere fermo e deciso, sapendo forse che tutto sarebbe tornato come prima. Cosa c’è di vero, Rosanna? C’è tutto. Il viceré donna Eleonora ha fatto cose grandissime in soli ventotto giorni. Ha dimezzato il prezzo del pane, abbassato il numero dei figli per i padri onusti, creato dei ricoveri per le orfane e per le vecchie prostitute, ha fatto dimettere l’intero Sacro Regio Consiglio corrotto. Non vi ho trovato solo astuzia. Eleonora è sicuramente intelligente, oltre che bellissima, e combatte con intelligenza che, se anche declina in astuzia, mi rende fiera di appartenere al genere femminile. È una donna sola, confortata solo dall’amicizia del medico, eppure non si spaventa.

Di questa donna si è rischiato di non venire mai a conoscenza. Non è citata negli annali dei viceré, mentre in una Storia Cronologica dei Viceré e in un Dizionario, editi in Italia, è solo accennata. Una inspiegabile, o forse troppo spiegabile, omissione. 

lunedì 18 aprile 2016

Storia vera e terribile tra Sicilia e America, Enrico Deaglio

Questa sera il libro da discutere ci farà soffrire un po’, almeno a me è accaduto. Ad un certo punto della lettura, quando si sono svelati alcuni fatti, non riuscivo più a guardare l’immagine in copertina. Qui è ritratta la foto di un uomo, Joe Defatta. Mi consola che, parlando di lui e di altri quattro sventurati stasera, come già prima ha fatto l’autore, restituiremo loro un po’ di giustizia. La storia, infatti, è quella di un linciaggio collettivo dove Joe, Charles, Frank, Rosario e John, tutti migranti cefalutani, diventano strani frutti nella sconosciuta Tallulah. La causa della loro morte è una capra che aveva infastidito il dottore del paese.
A parlarne siamo io, Giovanni, Marco, Annalisa, Lavinia, Patrizia R., Maria, Elke e Rosanna.

Marco ha imparato cose interessanti. Secondo lui questo libro non è un romanzo, però è una storia che va letta. Si è fatto un’idea personale della vicenda. Questi fratelli Defatta, migranti, venuti dal nulla, dalla lontana Sicilia, sono bravi. Invidia commerciale, quindi, prima di tutto. Poi, c’era che trattavano bene i negri, quando questi erano ancora oggetto di razzismo feroce. Forse erano prepotenti, e allora basta un episodio per montare la gente che non la fermi più. Aggiunge che suo padre è venuto via dalla Sicilia perché odiava i Siciliani.
Maria gli avrebbe dato un pugno su quest’ultima frase. Ma resta calma a chiedersi da dove derivi la parola linciaggio, la legge del linciaggio. Pensava fosse legata alla lapidazione e invece scopre che l’origine è la legge di Lynch. Ovvero, omicidio da parte di una folla di una persona sospettata o reo confesso di un delitto. Soffre Maria perché, secondo lei, non ci siamo spostati di una virgola da quell’episodio in avanti. Quei Siciliani sono andati lì per bisogno. Poi, a causa del loro destino, sono stati in una canzone e in una favola. L’ha colpita molto il capitolo otto, strani frutti. Corpi senza vita, appesi agli alberi in bella mostra. Trova però che il libro non sia un vero e proprio romanzo storico. È più una ricostruzione poliziesca od un saggio.

Patrizia dice che se si fosse trattato solo di un saggio, non ci avrebbe colpito così nel profondo. I fatti storici si incontrano dentro un vissuto che è romanzato, facendoli diventare propri. Le notizie sui personaggi sono romanzate, e il tentativo di rivestire la storia di umanità. Poi, c’è la scelta delle notizie. Leggendo, si progredisce nell’esserne colpiti, messe proprio in un certo punto. Ci invita a riflettere Patrizia R. sul significato che vogliamo dare alla parola mafia oggi e allora. Forse è meno grave il significato di allora. Inteso come aggregazione.

Ad Elke è piaciuto molto. Ha trovato tutta una parte di storia di cui aveva notizia, ma della quale non avevo letto alcunché. Ha trovato forme di razzismo pesante. Si è intenerita leggendo di come i Siciliani, imparando la lingua del posto, storpiassero i nomi delle città.
Lavinia l’ha trovato attualissimo. Allo straniero riconosce una grinta che noi non conosciamo. Riesce solo ad immaginare quale possa essere il dramma di spostarsi dalla propria terra.
 
Annalisa sostiene che chi va nel territorio d’altri è sempre considerato un invasore e un diverso.

A questo punto devo rammentare che in realtà quella dei Defatta, non è una migrazione volontaria, ma la storia di una deportazione ai danni di Siciliani delusi dalle promesse garibaldine e, per questo, potenzialmente pericolosi. Il Governo italiano aveva bisogno di disfarsi di queste persone, quello americano aveva bisogno di nuovi schiavi, essendo venuti meno i Negri. Gli interessi si incontrarono in un accordo, sconosciuto alla Storia. Per questo L’Italia, infatti, non difese la comunità siciliana dalle accuse tremende che le venivano lanciate e, in più, i nostri scienziati (vedi Lombroso) contribuirono a giustificare moralmente i linciaggi. 
Giovanni è d’accordo con Marco nella ricostruzione delle dinamiche che possono essere state alla base dell’omicidio collettivo. Ci fa notare lo strano caso di Pascoli che esortò gli Italiani ad andare in Libia a conquistare terre, più che in Louisiana a farsi linciare. È rimasto veramente male leggendo di Malcom X, il rivoluzionario nero islamico, che negli anni Sessanta aveva ricordato agli Italiani americani l’invasione dell’Italia da parte di Annibale.

Per Rosanna è impressionante che siano stati deportati sotto una falsa propaganda, appunto. Gente analfabeta, vittima di un Lombroso che aveva già fatto cultura. Diamo a tutti le stesse possibilità e poi ne parliamo! Ci dice, ma vorrebbe dirlo ai veri mandanti di quel crimine. Nessuno ha il diritto di considerare un altro inferiore. Le differenze ci sono, ma queste differenze non possono far acquisire dei diritti a danno di altri. È anche vero che all’interno dei gruppi esistono degli assunti di base che se uno dev’essere eliminato per l’omeostasi del gruppo, lo si elimina. È particolare che ospitalità abbia la stessa radice di hostis, nemico. Ovvero, la paura che l’altro riveli degli aspetti intimi di cui non si è a conoscenza. Il gruppo è paranoico.
Anch’io, come Patrizia, rifletto su quanto ci abbia colpito questo libro. I monologhi dei cinque assassinati sono strazianti. Per quanto romanzati, restituiscono voce, dopo 115 anni, a cinque vittime di un ordine economico che aveva cercato e trovato una nuova razza maledetta.

lunedì 21 marzo 2016

Guardati dalla mia fame, MIlena Agus e Luciana Castellina

Le parti di questo libro si parlano da lontano. Da lontano perché la distanza tra i fatti e il loro senso è davvero incolmabile. Libro a quattro mani, di autrici molto diverse tra loro. Un fatto di cronaca viene raccontato come realtà nuda e cruda da Luciana Castellina, come romanzo da Milena Agus. Il fatto è quello del 6 marzo 1946, quando, in Puglia, due sorelle di quattro, ignare della fame intorno, incolpevoli degli spari sulla folla, ma colpevoli per storia e classe, vengono linciate. A parlare con me di questa terribile guerra civile che si scatenò, non solo in Puglia, dal ’43 al ’49 ci sono Giovanni, Marco, Sarah, Maria, Marina, Marella, Giuseppina, Annalisa, Elke e Patrizia B. prima, però, ci soffermiamo sulla vita di queste sorelle, che sembrano un corpo unico, chiuse nel loro palazzo.
Per Maria Milena Agus affronta il vero, Luciana Castellina il verosimile. Le sorelle Porro non avrebbero mai potuto immaginare una vita diversa da come la vivevano, erano chiuse. Prigioniere di loro stesse e due volte vittime, perché a nessuno importava di loro e non erano (non sembravano) neanche ricche. Erano avulse dalla realtà, la loro colpa. La colpa di non voler sapere e non volere intervenire. All’interno del racconto della Agus c’è un personaggio narrante che man mano diventa l’alter ego dell’autrice stessa. A cui è venuto il nervoso a parlare delle Porro. Per questo non ci rivela il nome di chi narra, perché è lei stessa , la Agus. Il libro è particolare perché da quello che si legge, secondo Castellina, la folla ha diritto ad una reazione violenta, mentre la Agus non la poteva concepire.
A Marco ha interessato, ma non è piaciuto il tipo di romanzo, come strutturato. La seconda parte l’ha trovata troppo didattica. Le sorelle Porro hanno una consapevolezza ingenua. La loro serenità basata sulla fede, ma fuori dalla realtà, non le ha salvate.
Giovanni ritiene che la parte storica, la seconda, poteva essere messo prima, ma il lettore poteva essere prevenuto. Le due parti sono funzionali l’una all’altra. È indubbio che le sorelle Porro si limitassero ad esistere. Ma non dobbiamo dimenticare, ci dice, che stiamo guardando quella storia oggi, secondo i nostri criteri. Dovremmo vedere le usanze di allora, inquadrarla in quel tempo. Le sorelle Porro sono statiche, la voce narrante si muove solo dentro e solo dopo. Non c’era trasmigrazione. Sebbene progressista, la voce narrante non fa niente finché costretta.
Per Giuseppina le Porro sono quel che resta di una famiglia, di un mondo che è morto. Per sposare un ricco bisognava avere molti soldi. Non tutti i figli erano adatti al matrimonio, ne venivano prescelti solo alcuni o, addirittura, uno solo. Gli altri potevano sposare un povero, dice l’autrice, ma per le sorelle Porro sarebbe stata una vergogna. Sembra, dunque, la morte di una famiglia. E anche se non restava loro molto, la distanza è tale che il popolo non lo percepisce e vede solo il fatto che loro fossero il simbolo della ricchezza. Mi piacerebbe, dice Giuseppina, capire perché la narrante trovi pace nelle Porro. C’è nella Agus qualcosa delle sorelle Porro, qualcosa di profondo che l’ha portata a scriverne. L’ha colpita la museruola. E Di Vittorio che nel comizio non accenna minimamente alla violenza del giorno prima. È qui che la Agus non si trova per niente. La seconda parte è un saggio.
Sarah è d’accordo con Giuseppina, ma una vita grama era di molti ricchi. Non è una invenzione della Agus.
Lavinia non ha finito, ha letto solo la prima parte.
Per Marella l’autrice ha cercato in tutti i modi di trovare una salvazione per le sorelle, invece la narrante risultava loro ostile. Perché le tratta sempre come un essere unico. Come personaggio, le è piaciuta la serva e l’educazione tacita, sebbene la bambina vacilli. La scrittura le è risultata troppo semplice per la prima parte. Mentre la seconda parte è stata noiosa, non c’era bisogno di scriverla.
Annalisa, nei racconti di amici, ha conosciuto un mondo così. Dove il sacrificio di queste donne è tenere il palazzo di famiglia.
Ad Alessandra è piaciuta la prima parte, la seconda no. Le è sembrato un libro di storia.
Bisogna guardarsi dalla fame della gente. Perché questa, la fame, si fa violenza e chiede vendetta. 

lunedì 29 febbraio 2016

La vita sessuale dei nostri antenati, Bianca Pitzorno

Ada e Lauretta, cugine, orfane entrambe, sono state allevate dalla nonna. Ma quello che si racconta in questo libro sono storie di letto dei loro antenati. Viene ritrovato il diario della nonna, con dentro rivelazioni inaspettate, figli sparsi, avi dal sangue blu discutibile e gusti sessuali indicibili. Ada, a quasi quarant’anni, è una donna libera sessualmente. Un incontro sconosciuto di una notte avrebbe potuto renderla madre.
Presenti io, Giovanni, Marco, Annalisa, Giuseppina, Patrizia B., Maria, Marina, Sarah e Alessandra.
Esordisco col disgusto che ho provato a leggere questo libro. Quando l’ho prenotato, la libraia l’ha definito carino e divertente. Per me non è né l’uno né l’altro. Anzi, a tratti raccapricciante. Viene descritta una violenza sessuale come fosse la cosa più normale che ti possa capitare durante un giro in barca. E poi questo continuo spiare tra le lenzuola, ché se non racconti un po’ di sesso non c’è gusto. Mi ha infastidito, e parecchio, dover pensare che l’emancipazione femminile passi attraverso la sfera sessuale.
Maria ritiene che questa mia ultima frase sia carica di moralismo, ma io, moralista, non mi sento affatto. Ma tant’è. Anche a lei non è piaciuto. Non l’avrebbe mai comprato di suo, ma salva tante cose. Delle antenate si chiede cosa potevano fare le donne. La sessualità domina sia nella rottura totale degli schemi che nella adesione totale agli schemi. Lei non ha sopportato Daria, l’amica di Ada. È una femminista che taglia con l’accetta. Invadente e invasiva. Per il resto, è davvero tutto possibile nel mondo delle emozioni e dei sentimenti.
Per Giuseppina questo libro chiude il pensiero. Troppe vicende, un eccesso di cose che succedono, senza dare il tempo al lettore di collegare qualcosa di suo. È un libro freddo, come il personaggio. Gaddo, il marito di nonna Ada, non riesce però a vederlo come un violentatore. Il suo atteggiamento era puro investimento erotico.
Secondo Marina il piacere femminile ha cambiato la struttura sociale del nostro tempo. Trova belle le donne che vincono le categorie delle loro epoche. Lei non è schifata da quello che è accaduto alle loro madri. Tuttavia, ha fatto capolino nella lettura della Ferrante, ed è tutto un altro leggere.
A Marco non è piaciuto. Ma ha scoperto che cos’è l’arte topiaria. L’arte di modellare le siepi.
Sarah ritiene che la Pitzorno racconti con leggerezza qualcosa che non può essere leggero.
Alessandra è perplessa.
Mentre Annalisa riesce solo a dire che purtroppo storie di stupri ce n’erano, eccome.
Per Giovanni è stato un libro illeggibile.
Patrizia B. ci chiede se anche secondo noi lo zio Tancredi fosse femmina. Il finale, ai limiti della più sciocca tragicomicità, pensa sia un  espediente per fare il seguito.
Marella non l’ha finito, ma le stava piacendo e lo finirà sicuramente. Trova la storia tra Ada e il vecchio molto bella, ma riconosce alcune parti noiose.

lunedì 25 gennaio 2016

Itinerario Romanzo storico, proposte.

Eccole.
Guardati dalla mia fame di Milena Agus e Luciana Castellina.
Libro scritto a due mani, racconta una storia vera, l’uccisione delle sorelle Porro ad Andria nel 1946, nel clima infuocato del dopoguerra e della lotta per il lavoro e la terra tra braccianti ed agrari. Il libro si compone di due parti. Nella prima, scritta da Agus, l’autrice entra nel palazzo delle sorelle Porro e, tra immaginazione e documentazione storica, ricostruisce la “tragedia privata” delle protagoniste. 

Storia  e terribile tra Sicilia e America di Enrico Deaglio.
Il giornalista indaga sul linciaggio di cinque fruttivendoli siciliani a Tallhula, in Louisiana, nel 1899. Dietro la controversia per una capra molesta, che la versione ufficiale vuole all'origine dell'eccidio, i drammi dell'immigrazione e del razzismo. Che oggi si ripetono a parti rovesciate.

La rivoluzione della luna di Andrea Camilleri.
Correva l’anno 1677 quando, poco dopo essere stato nominato viceré di Sicilia, don Angel de Guzmán fu colto da morte improvvisa. I consiglieri del regno attendevano ancora la nomina di un sostituto, quando inaspettata giunse la notizia di una lettera, una sorta di testamento, che don Angel aveva scritto in caso di morte anticipata. Quale stupore per i consiglieri quando appresero che il  defunto aveva nominato sua moglie donna Eleonora di Mora come viceregina! Che disonore essere governati da una donna in una situazione come quella! 

lunedì 11 gennaio 2016

Il romanzo della nazione, Maurizio Maggiani


Questa è una storia di gente viva, viva davvero, intendo. Ed è la storia di una Nazione che è morta, morta sul serio, voglio dire. Aveva in mente di scrivere il romanzo della Nazione, l’autore. Ma disgraziatamente gli muore il padre, quello che lui riteneva lo scrigno della Nazione. Il libro racconta dei genitori e dei loro sacrifici. Della fatica e della lotta politica. Della costruzione di un maestoso Arsenale Militare. Del diventare grandi e delle speranze finite.
Ne parlo assieme a, Giovanni, Sarah, Patrizia B., Marina, Margherita, Carla, Patrizia R., Rosanna, Rita e Marella.

È un libro autobiografico, credo. Interessante per vedere lo spaccato di un periodo e di un Paese. Una buona scrittura che va per associazioni libere, perciò, a tratti faticosa. Le parti sulla morte mi hanno colpita molto, ma anche quelle sulla poesia. La scelta delle parole. Lo spirito di sacrificio. A forza di sacrifici si può prendere una piega migliore e capitare proprio in quella piega. Poi, non c’è verso. Io mi innamoro delle mani. Il primo romanzo della Nazione credo d’averlo letto nelle mani ruvide di mio padre.
A Sarah non è piaciuto. L’ha irritata moltissimo. Trova che sia solo una registrazione. Premessa valida, poi nulla. L’ha finito e quindi? Si è chiesta.
 
Maria non lo ricorda più. Avvicinandosi a Sarah, l’ha infastidita quanto più si staccava dall’autobiografia. Come me trova che sia biografico con taglio storico. Ma l’ha affaticata molto, proprio stancata, questo andare per associazione libera. Stupenda la parte del suo diventare orfano. I personaggi stupendi, i nomi spettacolari. Poi, quando deve sostenere il titolo, ci ricorda, sottolinea che ogni singolo avrebbe potuto scrivere il romanzo della Nazione. Chi è Nessuno fa storia.

A Rita mette ansia, le fa tristezza. Fatica con la categoria del romanzo storico, era prevenuta, invece leggendo non le è dispiaciuto. Anche la parte storica, forse perché aveva poche aspettative. Lo definisce uno spunto per pensare come eravamo. Dove la patria aveva la sua importanza e si facevano figli più facilmente. Dei pezzi incastrati nell’insieme, il racconto, e nell’insieme lo consiglierebbe anche.
Giovanni ha sentito la sconfitta del padre come fondatore di nazioni e come lui tutti quelli che ci hanno provato. Sono diventati solo proletari, proprietari di figli. Il libro si compone di due parti volute. Nella prima sono ben definiti i sentimenti dei fondatori di Nazione.

Carla non lo ha finito. Più o meno c’era, dice. Il racconto è un vissuti della nostra storia. Ha avuto la sensazione che poteva finire 100 pagine prima. Le dispiace che l’autore parli del padre come sconfitto. Non ha capito, perché aveva un vissuto pieno. C’erano esigenze diverse, la vita era diversa. C’era il tempo di pensare a qualcosa di ulteriore. La mentalità è fortemente cambiata.
A Rosanna le prime pagine sulla morte le hanno dato fastidio. Perché gli serviva il padre per scrivere il romanzo della Nazione. Eppoi: Nazione, che parolone! Nazione la fa pensare ad un paese che deve difendersi da un nemico esterno. Il patriottismo c’è quando c’è lo straniero, diceva Mazzini. Il problema è che è sfuggita una cosa semplicissima, che invece San Francesco aveva capito. La gente il latino non lo conosceva e bisogna parlarle col linguaggio visivo. Forse è qui tutto il fraintendimento e il fallimento di una Nazione. Le Nazioni si fanno conquistando.

Maria non è d’accordo. Rivendica all’autore la lucidità di sapere come l’avrebbero fatta la Nazione. Con il loro lavoro l’avrebbero fatta. Con il lavoro che era la loro utopia. Oggi non c’è lavoro, non ci può essere alcuna utopia. Al povero padre, all’autore, manca il passaggio di testimone. Questo è il fallimento.
Ma si può continuare a sognare, aggiunge Giovanni. Forse vivere di sogni è un’utopia. Eppure Lutero e M.L. King coi loro sogni hanno cambiato la storia. L’autore è questo che rimprovera al padre, di non aver seguito i suoi sogni.

Già. Marina pensa che tutti i figli potrebbero contestare qualcosa ai genitori. Che forse l’amore di patria non esiste. Che deve iniziare a sentirsi fallita come genitore. Che come figlia non ha acchiappato il testimone e non l’ha portato avanti.
Elke, il libro, non l’ha capito. Non ha trovato le due parti. Solo pensieri liberi.

Per Margherita il senso del racconto è che ci si è occupati del piccolo e si è perso di vista il grande.
Ancora Giovanni non ha capito, e ce lo chiede, perché l’autore prima idolatri il padre, poi lo critichi.

Gli risponde Maria. Per riportarlo per terra. Poi, anche per trovare una giustificazione per sé, Maggiani, di non essere fondatore di Nazione. È quello che lei vorrebbe fare da tempo. Ha sentito la possibilità per ognuno di noi di fare la Nazione. Convinta di ricominciare noi da noi.
Per Patrizia B. la prima parte è tenera. Poi, si è chiesta cosa stesse diventando il racconto. Cosa stiamo diventando noi, adesso.

Marella ha sentito pesantezza nata dall’assenza di un filo conduttore. A lei sembra che le persone si stiano adagiando. E di quel periodo dice che probabilmente quando c’è stato il boom economico le persone se lo son volute godere.
Questo tanto per dire che la storia non finisce mai, e va dove deve andare. Si conclude così il libro. E sono restata incerta.