Non andare cercando quale sorte il destino ha assegnato a me, a te; non consultare i maghi d'Oriente. E' meglio - vedi - non sapere; è meglio sopportare quello che verrà. Forse molti anni ancora stanno davanti a noi; forse questo inverno, che le onde del tirreno fiacca su la scogliera, è l'ultimo. Ma tu ragiona, vivi felice, e, poiché breve è la nostra vicenda, non inseguire i sogni di un futuro lontano. Ecco, mentre noi parliamo, il tempo invidioso se ne va. Cogli questo giorno che fugge, e non fidarti mai del domani.
(da Orazio, Odi, I, II)

martedì 21 febbraio 2017

Prime letture del 2017

Il 2017 è iniziato con un buon libro tra le mani.
Di solito i titoli che elencano un numero di cose mi respingono, quasi automaticamente. Probabilmente perché quel numero quasi sicuramente potrà difettare. Ma il libro che sto per svelarvi ce l'ha solo come sottotitolo, l'elenco. Il titolo principale è La lingua geniale. Da studentessa liceale ho amato il greco più di ogni altra materia. Il mio incubo peggiore (scolasticamente, parlando) è quello dove non sono più capace di leggerne l'alfabeto. E' anche per me una lingua geniale, il greco, e non so se ho solo nove ragioni per amarlo. Eccolo, il sottotitolo. Di sicuro ne ho sperimentato qualcuna di quelle che l'autrice svela come il mistero di una lingua morta. La costrizione a farti ragionare. Poi, a racchiudere in una vocale privativa il contrario di tutto. A vedere le cose sempre in maniera diversa da come possono sembrare. A ragionare sul come, non sul quando. A cercarne l'etimologia. Perché, sempre, alle origini di ogni cosa è utile tornare, per capire.
 La lingua geniale, 9 ragioni per amare il greco di Andrea Marcolongo editori Laterza.
 E' proseguito poi, il nuovo anno, con un breve e piccolo libro di una casa editrice che amo molto, quella di Elvira Sellerio. Sull'orlo del precipizio mi ci ha portato proprio il nome dell'autore. Curiosa di conoscere una scrittura che continua ad essere scelta dall'editore. La storia è paradossale. Le case editrici non esistono più. Vengono, via via che lo scrittore Giorgio Volpe tenta di pubblicare il suo ultimo romanzo, fagocitate da un mostro editoriale che traduce Manzoni e che vede i libri come codici prodotto. Ahimè, non è poi così paradossale.
Sull'orlo del precipizio di Antonio Manzini Sellerio editore Palermo.
L'incontro di lettura di febbraio mi ha portato La vita felice. Che di felice ha poco o niente. Un'atmosfera torbida mi ha tenuta inquieta e sospesa leggendo di Elia e di un'estate dove viene rapita una ragazza.
La vita felice di Elena Varvello Einaudi
L'incontro di lettura di gennaio, invece, mi aveva suggerito degli incroci. Potevo immaginare di che tipo, forse, ma da sola non ci sarei mai arrivata. Mi perdonerà l'autrice se ho scritto incroci e non Crossroads, come il titolo del libro. Devo ammettere che gli inglesismi li soffro un po', e non solo gli inglesismi, ma qui uno dei protagonisti è inglese. Allora taccio. La storia è quella di Marta e Robert, e di Michela. Un bel personaggio Michela, ho tifato molto per lei, ma non rispetto a Marta. I primi due, dopo la separazione, ingaggiano una guerra che oltrepassa il rispetto per i figli e sovraccarica il finale. Un bel finale quell'invito, ma non si tratta di Michela che per tutto il libro è restata innamorata di Marta.
Crossroads di Mariateresa Funtò youcanprint.it
Eppoi, Donatella. L'ho letto d'un fiato l'Arminuta. Ho ritrovato la sua scrittura dolorosa, schietta. Una storia di un altro secolo, e un altro secolo è sicuro, ma non così lontano. Una storia di miseria, quella di una bambina che a sei mesi viene passata come figlia ad una parente per poi ritornare alla prima madre a tredici anni. Una storia di amore tra fratelli. La complicità che salva qualche volta, per fortuna.   
L'Arminuta di Donatella di Pietrantonio Einaudi
 

lunedì 13 febbraio 2017

La vita felice, Elena Varvello


Presenti Giovanni, Mariateresa, Sarah, Patrizia R., Giuseppina, Maria, Margherita, Patrizia B., Elke, Annalisa ed io. E Zeno. Poi, finalmente è tornata Letizia.
La vita felice è la storia di Elia Furenti e di suo padre Ettore. La storia di un’estate e di una notte, nel 1978.
A raccontarla è lo stesso Elia, trent’anni dopo. Suo padre è stato licenziato, ma ha ritrovato lavoro. Ha comprato un furgone, si comporta in modo strano. Sua madre sembra rassicurarlo. Quell’estate un piccolo paese ai margini di un bosco viene segnato dall’omicidio irrisolto di un bambino e dal rapimento di una ragazza, mentre Elia prova la prima forte attrazione per una donna, Anna, la madre del suo amico Stefano.
La lettura de La vita felice ce l’ha proposta Alessandra. Sarebbe stato interessante ascoltarne le motivazioni, ma stasera ha avuto un impegno imprevisto.
Anche Marella è assente, ma non ha mancato di inviare il suo commento dove ammette di aver approcciato “La vita felice” in modo prevenuto a causa di un forte presentimento che il titolo del libro fosse un’allusione e che venisse raccontata una vita tutt’altro che felice. Avrebbe preferito sbagliare, ma purtroppo l’epilogo e la storia stessa hanno confermato ciò che si aspettava. la sensazione che il libro le ha lasciato è inquietudine. E’ una storia cupa, in cui io non ha visto nemmeno un briciolo di speranza e possibilità di riscatto per i personaggi. Talvolta ha pensato che l’autrice avrebbe voluto far arrivare ai lettori un sentimento di questo tipo attraverso alcuni gesti od azioni dei protagonisti, ma a nessuno di questi è riuscita ad associare un motivo di felicità. La madre di Elia e moglie di Ettore, Marta, le ha fatto tenerezza. Ha letto pensieri ed azioni di una donna innamorata, troppo piccola di fronte ad un uomo di tale portata e troppo spaventata di non essere all’altezza della situazione; incapace di agire; statica. Ciononostante, la difende perché con un marito così accanto la distinzione tra giusto e sbagliato è molto confusa. L’alternanza della storia principale all’episodio di “violenza” trova che sia un modo per tenere il lettore col fiato sospeso ed invogliarlo a proseguire la lettura. Marella lo faceva con la speranza che qualcosa o qualcuno cambiasse - agisse -, ma invano.
La prima a replicare a Marella, per iscritto e poi anche a voce ai presenti, è Maria. Condivide la sua sensazione di inquietudine, che da subito afferra e non lascia. La felicità non esiste in questa storia, è vero, però la si riesce a intravedere a sprazzi. Una felicità che non ha nulla di esaltante, ma in quella vita buia, in quei luoghi alienanti e desertificati, forse per chi la prova è più intensa che in situazioni perfette. Per esempio in Elia ragazzo, quando vive attimi di benessere assoluto in quella che chiama amicizia con Stefano. Poi quando gli è possibile stare con Anna e, dopo averla salutata, nel ricordo dei baci e delle emozioni provate. Poi quando ricorda suo padre divertente e la madre felice e lui con loro. Poi, da adulto, salvato dal lavoro lontano dal luogo degli orrori, e da una donna con figlio, che lo vuole e lo tiene nella sua vita, sapendo tutto di lui, ha consapevolezza che la vita felice è quella che ci resta e che quindi non va sprecata. Elia ragazzo prova inconsapevolmente a salvarsi, non facendo troppe domande, e allontanandosi appena possibile dal luogo cupo della sua casa. Non pretende quasi nulla dalla mamma e in fondo ha paura di quel padre di cui non capisce la pena, ma neanche riesce a pensarlo impazzito. Ne è profondamente turbato, ma non sa dare nome a pensieri che gli arrivano improvvisamente su quello che il padre potrebbe aver fatto e stare facendo. Non chiede mai conto fino in fondo ai suoi genitori. Marta fa tenerezza anche a lei per la forza e la fiducia nell'amore che nutre per Ettore al di là di ogni dubbio, di ogni sensazione terribile di qualcosa che sta franando. Al figlio chiede fiducia e sopportazione. Chiede davvero troppo. Ma nel momento in cui il pericolo è evidente lo protegge tenendolo la notte con sé e poi allontanandolo di casa. Forse non ha capito cosa stia accadendo al marito, ma di certo il suo amore non è stato mai intaccato. Sembra che senza non avrebbe potuto vivere. Eppure senza di lui poi vive. Poi Ida, c'è sempre. Amica sul serio. E madre sempre presente per la sua Simona. Anna invece l’ha affascinato moltissimo, nel suo essere fuori dagli schemi, non afferrabile mai, consapevole delle sue scelte e delle conseguenze, consapevole degli stati d'animo del padre, del figlio, donna di casa a tutto tondo, libera dentro a sufficienza tanto da non tirarsi indietro di fronte al desiderio chiaramente percepito del ragazzo, e condiviso. E' colei che lo ha iniziato alla sessualità e al tempo stesso è materna, incoraggiante, protettiva a suo modo. Le due donne, anzi le tre donne vogliono che lui creda che potrà dimenticare. Lui non dimentica, ma si salva. Ettore vien fuori pian piano, tornando indietro all'inizio della sua schizofrenia, a cominciare da quello che davvero succede con il suo cane, alla voce, alla presenza che gli dice ogni tanto cosa fare. Alla mania di persecuzione, alla paranoia e a tutto il resto. Si è spaventata nei momenti in cui vuole parlare con il figlio, vuole insegnargli qualcosa, forse vuole parlare di sé. Secondo Maria l'autrice è stata efficacissima nel tenere con il fiato sospeso, nell'infilare il lettore in una ambientazione cupa, inquietante, torbida, malata, ma che non diventa del tutto nera se non alla fine. Bravissima a darsi voce di maschio adolescente, voce spezzettata, sbriciolata, buttata lì, via, a dire e non dire. Un linguaggio asciutto, prosciugato.
Sarah ha cercato notizie sul libro e sull’autrice ed ha scoperto che la storia è in parte autobiografica. Che il piccolo paese di Ponte esiste e che Ettore Furenti è il padre. Personaggio in cortocircuito che l'autrice ha amato senza poterlo davvero conoscere. Ci fa ascoltare un’intervista dal suo telefono.
Giuseppina, con l’autobiografia, si spiega ora il perché si possa scrivere una storia del genere. La lettura le ha trasmesso quasi un senso di omertà, perché alla base della storia c’è uno stato di terrore. Uno stato di angoscia di cui si fa carico il ragazzo. Non a caso, della vittima non ha ancora parlato nessuno.
Mariateresa, mentre parliamo, crede di stare rivalutando la figura della madre, Marta. Perché lei, dice, non sarebbe capace di amare così, una persona così, profondamente disturbata. Dell’autrice, se ha potuto scrivere del padre, è stata brava. Brava pure a mettersi molte coperte addosso nel raccontare. Cambiando innanzitutto il genere del narrante, un ragazzo anziché una ragazza. Investendolo di episodi tragici che, si spera, non le siano davvero accaduti. Poi, mettendo tanto tempo in mezzo. Forse, l’operazione di ricordo che Elia ha condotto, o l’autrice stessa, è dovuta al fatto che ci si sente in colpa ad amare una persona terribile, è un peso da sgomberare amare una persona che ha fatto del male. Una frase l’ha colpita nel libro, seppure non le sia stata del tutto chiara. Quella sulla delusione, che ti tiene legato alle cose sbagliate.
A Patrizia R., aver saputo del tratto autobiografico, ha chiarito l’assenza di giudizio che ha respirato per tutto il libro. Il lettore si è trovato chiuso nel recinto di quella famiglia, di quella storia, tutti a viverla dall’interno e nessuno che la guarda da fuori. L’atteggiamento di Marta, la madre, è una mostruosità, perché sarebbe bastato un attimo. Eppure lei l’ha sentita la consapevolezza di questa donna, di cosa le sta succedendo. Ha sentito il pericolo insito dell’amore, della famiglia e del non vedere. Legge l’ultima pagina Patrizia e dice che è forse lì la spiegazione alla delusione. Accettare il bene che hai voluto ad una persona che ti ha fatto male.
Margherita si è chiesta come viva la malattia mentale di un genitore un bambino. La madre non le è piaciuta, non ha dato mai spiegazioni. Ha negato la malattia, lasciando solo il figlio. La storia per lei non è autentica perché trova difficile, se non impossibile, che una persona malata, così profondamente disturbata, possa mantenere una relazione affettiva così forte. C’è qualcosa che non le torna, l’ha letto come un bambino che cerca di spiegarsi un’incoerenza.
Letizia, siccome non veniamo a capo di una vita felice in questa storia, prova a dirci che la vita felice è un progetto. Quello di Marta. Non c’è una negazione, ma tutto deve andare avanti così. Per questo sminuisce tutto ciò possa intaccare il suo progetto, la sua vita felice. Va’ a dormire, non è niente, si potrebbe riassumere.
Annalisa vede tutt’altro che una vita felice, anche ammettendo un progetto. Vede una vita difficile con una persona malata, non curata. E riguardo a Marta, al suo non vedere, ritiene che a volte le cose non le vedi proprio perché non le vedi davvero. Non perché non vuoi.
Ad Elke il libro è piaciuto molto. Non ha amato il modo asciutto di scrivere, difficile per mancanza di descrizioni. I personaggi le sono piaciuti tutti, Marta deludente. Come madre avrebbe dovuto proteggere di più il figlio. Ha desiderato che il padre si allontanasse nei momenti di lucidità e ha sofferto per frasi scritte male, ma solo per rendere autentico il parlare colloquiale di un ragazzo.
Patrizia B. ha provato un dolore fisico leggendo. Una sensazione terribile di cui è riuscita a liberarsi solo con noi stasera, ascoltando. Non riesce a capacitarsi però di un figlio che deve vedere il padre come un criminale. E non se ne capacita neppure lui, forse, se dopo tanti anni, dà ancora voce ad un terrore. Di quel terrore la madre sa, eppure lascia che gli resti e se lo porti da grande.
A Giovanni piacciono le storie a lieto fine. E, sebbene il libro gli sia piaciuto, il finale lo ha lasciato con l’amaro in bocca. Ha apprezzato la scrittura. Breve ed efficace. E proprio in ragione della bravura dell’autrice in efficacia e brevità, non avrebbe voluto che ci svelasse l’uomo immaginario. L’uomo che diceva le cose ad Ettore Furenti, che vedeva solo lui. Avrebbe dovuto lasciarlo all’intelligenza del lettore. Gli scrittori a volte si fidano poco dei lettori, ed è un peccato.
L’inquietudine e l’angoscia che mi ha fatto vivere questa storia è stata pari alla speranza che accadesse qualcosa di concreto. Ma non qualcosa di terribile, come la morte del bambino e il rapimento della ragazza. Prima ancora anche il povero cane. Qualcosa di concreto come fa Santo Trabuio. Di lui si dice poco, ma quel poco basta a darci l’idea che le cose si fanno. Prima che dirle si fanno. Nel libro una frase mi ha colpito ed ha racchiuso il senso, terribile, della storia. Quella secondo cui se tieni per te le cose, non sembrano poi così vere. Forse. Elia dopo trent’anni ci torna su quella storia. Se la racconta. Lui, se la racconta. Quando il padre è morto da tempo e non vede più la madre. Fa cadere i sospetti sulla colpevolezza della morte del bambino, non sul rapimento della ragazza. Perché, almeno, la ragazza non muore. Succede così, penso, che proviamo a riabilitare una persona cara che non c’è più. Per chi resta a volte è necessario.