Presenti Giovanni, Mariateresa, Sarah, Patrizia R., Giuseppina, Maria,
Margherita, Patrizia B., Elke, Annalisa ed io. E Zeno. Poi, finalmente è tornata
Letizia.
La vita felice è la storia di Elia Furenti e di suo padre Ettore. La storia
di un’estate e di una notte, nel 1978.
A raccontarla è lo stesso Elia, trent’anni dopo. Suo padre è stato
licenziato, ma ha ritrovato lavoro. Ha comprato un furgone, si comporta in modo
strano. Sua madre sembra rassicurarlo. Quell’estate un piccolo paese ai margini
di un bosco viene segnato dall’omicidio irrisolto di un bambino e dal rapimento
di una ragazza, mentre Elia prova la prima forte attrazione per una donna,
Anna, la madre del suo amico Stefano.
La lettura de La vita felice ce l’ha proposta Alessandra. Sarebbe
stato interessante ascoltarne le motivazioni, ma stasera ha avuto un impegno
imprevisto.
Anche Marella è assente, ma non ha mancato di inviare il
suo commento dove ammette
di aver approcciato “La vita felice” in modo prevenuto a causa di un forte
presentimento che il titolo del libro fosse un’allusione e che
venisse raccontata una vita tutt’altro che felice. Avrebbe preferito sbagliare,
ma purtroppo l’epilogo e la storia stessa hanno confermato ciò che si aspettava.
la sensazione che il libro le ha lasciato è inquietudine. E’ una storia cupa,
in cui io non ha visto nemmeno un briciolo di speranza e possibilità di
riscatto per i personaggi. Talvolta ha pensato che l’autrice avrebbe voluto far
arrivare ai lettori un sentimento di questo tipo attraverso alcuni gesti od
azioni dei protagonisti, ma a nessuno di questi è riuscita ad associare un
motivo di felicità. La madre di Elia e moglie di Ettore, Marta, le
ha fatto tenerezza. Ha letto pensieri ed azioni di una donna innamorata, troppo
piccola di fronte ad un uomo di tale portata e troppo spaventata di non essere
all’altezza della situazione; incapace di agire; statica. Ciononostante, la difende
perché con un marito così accanto la distinzione tra giusto e sbagliato è molto
confusa. L’alternanza della storia principale all’episodio di “violenza” trova
che sia un modo per tenere il lettore col fiato sospeso ed invogliarlo a
proseguire la lettura. Marella lo faceva con la speranza che qualcosa o qualcuno
cambiasse - agisse -, ma invano.
La prima
a replicare a Marella, per iscritto e poi anche a voce ai presenti, è Maria. Condivide la sua
sensazione di inquietudine, che da subito afferra e non lascia. La felicità non
esiste in questa storia, è vero, però la si riesce a intravedere a sprazzi. Una
felicità che non ha nulla di esaltante, ma in quella vita buia, in quei luoghi
alienanti e desertificati, forse per chi la prova è più intensa che in
situazioni perfette. Per esempio in Elia ragazzo, quando vive attimi di
benessere assoluto in quella che chiama amicizia con Stefano. Poi quando gli è
possibile stare con Anna e, dopo averla salutata, nel ricordo dei baci e delle
emozioni provate. Poi quando ricorda suo padre divertente e la madre
felice e lui con loro. Poi, da adulto, salvato dal lavoro lontano dal luogo
degli orrori, e da una donna con figlio, che lo vuole e lo tiene nella sua
vita, sapendo tutto di lui, ha consapevolezza che la vita felice è quella che ci resta e che quindi non va sprecata. Elia
ragazzo prova inconsapevolmente a salvarsi, non facendo troppe domande, e
allontanandosi appena possibile dal luogo cupo della sua casa. Non pretende
quasi nulla dalla mamma e in fondo ha paura di quel padre di cui non capisce la
pena, ma neanche riesce a pensarlo impazzito. Ne è profondamente turbato, ma
non sa dare nome a pensieri che gli arrivano improvvisamente su quello che il
padre potrebbe aver fatto e stare facendo. Non chiede mai conto fino in fondo
ai suoi genitori. Marta fa tenerezza anche a lei per la forza e la fiducia
nell'amore che nutre per Ettore al di là di ogni dubbio, di ogni sensazione
terribile di qualcosa che sta franando. Al figlio chiede fiducia e
sopportazione. Chiede davvero troppo. Ma nel momento in cui il pericolo è
evidente lo protegge tenendolo la notte con sé e poi allontanandolo di casa. Forse
non ha capito cosa stia accadendo al marito, ma di certo il suo amore non è
stato mai intaccato. Sembra che senza non avrebbe potuto vivere. Eppure senza
di lui poi vive. Poi Ida, c'è sempre. Amica sul serio. E madre sempre presente
per la sua Simona. Anna invece l’ha affascinato moltissimo, nel suo essere
fuori dagli schemi, non afferrabile mai, consapevole delle sue scelte e delle
conseguenze, consapevole degli stati d'animo del padre, del figlio, donna di
casa a tutto tondo, libera dentro a sufficienza tanto da non tirarsi indietro
di fronte al desiderio chiaramente percepito del ragazzo, e condiviso. E' colei
che lo ha iniziato alla sessualità e al tempo stesso è materna, incoraggiante,
protettiva a suo modo. Le due donne, anzi le tre donne vogliono che lui creda
che potrà dimenticare. Lui non dimentica, ma si salva. Ettore vien fuori pian
piano, tornando indietro all'inizio della sua schizofrenia, a cominciare da
quello che davvero succede con il suo cane, alla voce, alla presenza che gli
dice ogni tanto cosa fare. Alla mania di persecuzione, alla paranoia e a tutto
il resto. Si è spaventata nei momenti in cui vuole parlare con il figlio, vuole
insegnargli qualcosa, forse vuole parlare di sé. Secondo Maria l'autrice è
stata efficacissima nel tenere con il fiato sospeso, nell'infilare il lettore
in una ambientazione cupa, inquietante, torbida, malata, ma che non diventa del
tutto nera se non alla fine. Bravissima a darsi voce di maschio adolescente,
voce spezzettata, sbriciolata, buttata lì, via, a dire e non dire. Un
linguaggio asciutto, prosciugato.
Sarah ha cercato notizie sul libro e
sull’autrice ed ha scoperto che la storia è in parte autobiografica. Che il
piccolo paese di Ponte esiste e che Ettore Furenti è il padre. Personaggio in
cortocircuito che l'autrice ha amato senza poterlo davvero conoscere. Ci fa
ascoltare un’intervista dal suo telefono.
Giuseppina, con l’autobiografia, si
spiega ora il perché si possa scrivere una storia del genere. La lettura le ha trasmesso
quasi un senso di omertà, perché alla base della storia c’è uno stato di
terrore. Uno stato di angoscia di cui si fa carico il ragazzo. Non a caso, della
vittima non ha ancora parlato nessuno.
Mariateresa, mentre parliamo, crede
di stare rivalutando la figura della madre, Marta. Perché lei, dice, non
sarebbe capace di amare così, una persona così, profondamente disturbata. Dell’autrice,
se ha potuto scrivere del padre, è stata brava. Brava pure a mettersi molte
coperte addosso nel raccontare. Cambiando innanzitutto il genere del narrante,
un ragazzo anziché una ragazza. Investendolo di episodi tragici che, si spera,
non le siano davvero accaduti. Poi, mettendo tanto tempo in mezzo. Forse, l’operazione
di ricordo che Elia ha condotto, o l’autrice stessa, è dovuta al fatto che ci
si sente in colpa ad amare una persona terribile, è un peso da sgomberare amare
una persona che ha fatto del male. Una frase l’ha colpita nel libro, seppure
non le sia stata del tutto chiara. Quella sulla delusione, che ti tiene legato
alle cose sbagliate.
A Patrizia R., aver saputo del
tratto autobiografico, ha chiarito l’assenza di giudizio che ha respirato per
tutto il libro. Il lettore si è trovato chiuso nel recinto di quella famiglia,
di quella storia, tutti a viverla dall’interno e nessuno che la guarda da
fuori. L’atteggiamento di Marta, la madre, è una mostruosità, perché sarebbe
bastato un attimo. Eppure lei l’ha sentita la consapevolezza di questa donna,
di cosa le sta succedendo. Ha sentito il pericolo insito dell’amore, della famiglia
e del non vedere. Legge l’ultima pagina Patrizia e dice che è forse lì la
spiegazione alla delusione. Accettare il bene che hai voluto ad una persona che
ti ha fatto male.
Margherita si è chiesta come viva la
malattia mentale di un genitore un bambino. La madre non le è piaciuta, non ha
dato mai spiegazioni. Ha negato la malattia, lasciando solo il figlio. La storia
per lei non è autentica perché trova difficile, se non impossibile, che una
persona malata, così profondamente disturbata, possa mantenere una relazione
affettiva così forte. C’è qualcosa che non le torna, l’ha letto come un bambino
che cerca di spiegarsi un’incoerenza.
Letizia, siccome non veniamo a capo
di una vita felice in questa storia, prova a dirci che la vita felice è un progetto. Quello di Marta. Non c’è una
negazione, ma tutto deve andare avanti così. Per questo sminuisce tutto ciò
possa intaccare il suo progetto, la sua vita felice. Va’ a dormire, non è
niente, si potrebbe riassumere.
Annalisa vede tutt’altro che una
vita felice, anche ammettendo un progetto. Vede una vita difficile con una
persona malata, non curata. E riguardo a Marta, al suo non vedere, ritiene che
a volte le cose non le vedi proprio perché non le vedi davvero. Non perché non
vuoi.
Ad Elke il libro è piaciuto molto. Non
ha amato il modo asciutto di scrivere, difficile per mancanza di descrizioni. I
personaggi le sono piaciuti tutti, Marta deludente. Come madre avrebbe dovuto
proteggere di più il figlio. Ha desiderato che il padre si allontanasse nei
momenti di lucidità e ha sofferto per frasi scritte male, ma solo per rendere
autentico il parlare colloquiale di un ragazzo.
Patrizia B. ha provato un dolore
fisico leggendo. Una sensazione terribile di cui è riuscita a liberarsi solo
con noi stasera, ascoltando. Non riesce a capacitarsi però di un figlio che
deve vedere il padre come un criminale. E non se ne capacita neppure lui,
forse, se dopo tanti anni, dà ancora voce ad un terrore. Di quel terrore la
madre sa, eppure lascia che gli resti e se lo porti da grande.
A Giovanni piacciono le storie a
lieto fine. E, sebbene il libro gli sia piaciuto, il finale lo ha lasciato con
l’amaro in bocca. Ha apprezzato la scrittura. Breve ed efficace. E proprio in
ragione della bravura dell’autrice in efficacia e brevità, non avrebbe voluto
che ci svelasse l’uomo immaginario. L’uomo che diceva le cose ad Ettore
Furenti, che vedeva solo lui. Avrebbe dovuto lasciarlo all’intelligenza del
lettore. Gli scrittori a volte si fidano poco dei lettori, ed è un peccato.
L’inquietudine e l’angoscia che mi
ha fatto vivere questa storia è stata pari alla speranza che accadesse qualcosa
di concreto. Ma non qualcosa di terribile, come la morte del bambino e il
rapimento della ragazza. Prima ancora anche il povero cane. Qualcosa di
concreto come fa Santo Trabuio. Di lui si dice poco, ma quel poco basta a darci
l’idea che le cose si fanno. Prima che dirle si fanno. Nel libro una frase mi
ha colpito ed ha racchiuso il senso, terribile, della storia. Quella secondo
cui se tieni per te le cose, non sembrano
poi così vere. Forse. Elia dopo trent’anni ci torna su quella storia. Se la
racconta. Lui, se la racconta. Quando il padre è morto da tempo e non vede più
la madre. Fa cadere i sospetti sulla colpevolezza della morte del bambino, non
sul rapimento della ragazza. Perché, almeno, la ragazza non muore. Succede così,
penso, che proviamo a riabilitare una persona cara che non c’è più. Per chi
resta a volte è necessario.