Questa sera si torna nella sede che ci ha accolti al primo incontro, via Lame 116, e quasi provo un po’ d’emozione per questo rimando della memoria, e mi gratifica il fatto che è passato un po’ di tempo da allora e, anche stanchi, ci siamo ancora. Prima di raggiungere la sede incontro Rosanna e si fa l’ultimo pezzo di strada a piedi. Indicando il giubottino rosso mi chiede se ho dismesso il lutto. Mi sono imposta che sarà una bella serata. Con la passione e l’entusiasmo del primo incontro. E il rosso è colore di dolore ma anche di passione, di magia e d’amore. Del sangue e della vita.
Ci sono quasi tutti quelli che ci devono essere. Maria, Alberto, Luigi, Chiara, Giusy, Lorenzo, Rosanna ed io. Mirca e Barbara arrivano appena dopo.
Madonna, che roba! Esclama Rosanna che da un lato è stata impressionata dalle sevizie che la ragazzina ha dovuto subire, dall’altro forse l’ha impressionata più il dolore dei genitori, o meglio, del padre. E ad un certo momento della lettura ha cominciato ad unire i due pensieri, quello della figlia e quello del padre, e si è chiesta il perché della morbosità di entrambi. E in lontananza le è si è affacciato un non so che d’incestuoso. Cosa che anche io e Maria condividiamo. Questo padre, che nel cuore ancora la cerca la sua bambina anche quando la testa vi aveva rinunciato da tempo, spesso si abbandona a ricordi prosaici di un’igiene troppo accurata, di un tatto troppo intimo, di uno sguardo smisuratamente attento. Lui forse non se ne accorge e non lo sa. Ma è proprio questo che m’ha colpito del libro. Questi legami strani e forti, taciti, inconsapevoli. D’una ragazzina che pure ha amato tantissimo suo padre e stava bene solo con lui ma che non vuole rivedere alla fine della prigionia. Proprio lui, l’unico che la cercava. È vero che Rita era una figlia sballottolata a destra e a manca, ci dice Giusy, e che era già fuori dal mondo anche quando era libera. E aveva già, ancor prima d’essere rinchiusa, un’attitudine alla televisione e all’apparire. Forse perché troppo intelligente, o troppo antipatica come racconta la compagna. Un po’ d’antipatia il suo masochismo eccessivamente narcisista la fa. Barbara ha letto poco, già le prime pagine le hanno suscitato angoscia pensando ai fatti di cronaca. E proprio per ciò Maria le rimprovera che le sarebbe potuto piacere se avesse continuato nella lettura. Chiara allora si propone di rileggerlo perché la stessa angoscia l’ha sentita anche lei. E Mirca ha pianto. Il parallelo istantaneo, quello che credo sia balzato nelle mente di tutti, più che con la storia cui l’autore si è ispirato, è stato con la scomparsa di Yara non più di due mesi fa. Si è chiesta Mirca come può crescere così una ragazzina che deve ancora formare il suo carattere e le mancano i modelli. Ed è quasi stupefacente la difesa adottata, quella di restare bambina fino alla fine, per tutto il tempo, per non confrontarsi con un pazzo e non impazzire a sua volta. O per impazzire davvero, dipende. Lorenzo si è soffermato molto sull’aspetto psicologico. Dà merito all’autore di essere riuscito a descrivere in maniera impeccabile una storia di pensieri più che di fatti e l’evoluzione della stessa pur restando nella dimensione mentale e lasciandoci una certezza, quella che i sogni salvano. Anche un sogno effimero come può essere andare in televisione o avere una storia d’amore col beniamino di un telefilm o ancora essere la reginetta di un telequiz. In effetti sembra un resoconto surreale e dice bene Giusy quando trova che Rita sia reale proprio quando non vuole parlare. O quando spezza i pensieri, aggiunge Maria, e sembra davvero che le manchi il respiro smettendo finalmente la cerebralità ed emozionandosi e piangendo in maniera umana. E qui la si potrebbe davvero abbracciare cosa che invece avremmo fatto continuamente con suo padre invece perché è sembrato più perdente della figlia, più sconfitto, più deluso da se stesso, più colpevole. Luigi e Alberto restano silenziosi e sospettosi quasi, attenti ad ascoltare le nostre affermazioni. Del resto l’aspetto che più li ha interessati è proprio quello dei sospetti e le frequenti esternazioni di normalità, come spesso capita, o l’etichetta di indifferenza che può facilmente attribuirsi. E un senso di colpa generale. Di nuovo Mirca a partecipare alla colpa per la morte del piccolo Devid qualche giorno fa, nel freddo bolognese dell’indifferenza forse, ma anche di una scelta che spesso può solo lasciare impotenti. Rita ad esempio aveva scelto di credere al suo carceriere. Aveva scelto anche di condividere il suo segreto e la sua pazzia. Aveva scelto un silenzio e una difesa che riusciva a governare meglio da un tugurio. E aveva scelto nella sua mente la morte di suo padre. Non quella di sua madre o, come tutti leggendo spesso abbiamo pensato e forse sperato, quella del signor Sergio, del suo carceriere. Sceglie di restare ferma, ad essere bambina, otto anni. Otto, l’infinito. In questo stesso infinito il padre si accorge che non si finisce mai d’essere figli e che sarebbe necessario amare con moderazione e lucidità, senza smancerie, senza andare dove ti porta il cuore, una persona alla volta, una sola poi che sia la più importante. Bisogna pensare prima di tutto, altro che cazzate, pensare all’utilità di un dolore che ne scaccia un altro, al fatto che il pianto non unisce due persone già lontane, che si ricomincia sempre, alla fine, che si può fare a meno di tutto e si vive anche con senza una figlia. Pensare e ricordarsi le cose dette, le prime parole, le prime frasi, i primi discorsi. Ché se non pensi fai tanti discorsi nella vita ma va a finire che chiudi miseramente con una preposizione semplice.
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