L’ultimo arrivato è il racconto
di una migrazione bambina, dal nostro sud al nostro nord. Erano solo gli anni
cinquanta del secolo scorso. Il protagonista è un piccolo migrante, Ninetto,
detto pelleossa. Aveva appena nove anni, una madre silenziosa e un padre che
preferisce saperlo lontano, con almeno un cenno di futuro. Ma quella promessa
di futuro non è per tutti. La sua vita passa dalla fabbrica, al carcere, ad una
finestra su una strada di Milano.
A parlarne ci sono Maria,
Patrizia R., Giuseppina, Sarah, Mario, Patrizia B., Marella, Marco, Elke, Margherita,
Carla, Rosanna Giovanni ed io.
Per Maria Ninetto era un bambino
capace, ben delineato già a pagina 18. Aveva dovuto tirare fuori il coraggio
subito. Aveva una base buona, forte, poteva crescere bene. Invece rivela
egoismo all’ennesima potenza e un carattere possessivo ben definito, come lo si
può leggere a pag. 158. È raccontato tutto del suo carattere, spiega, non ci
dobbiamo immaginare niente. Maria l’ha odiato per come si è comportato con la
bambina (l’aveva presa e portata a vedere l’alveare
dove lui era stato, arrivando dalla Sicilia, a nove anni). L’aveva spaventata. Aveva perso completamente la testa. Lei,
leggendo, no. E sente lo spavento della bambina. Non accetta il finale positivo
e si chiede perché l’ultimo arrivato. Sicuramente non l’ultimo arrivato nella
baracca.
Secondo Elke ha fatto tutto
inconsapevolmente. E il finale, che non piace a Maria, è probabile sia motivato
dal fatto che ci sarà un seguito. Il sogno di quello che farà con la nipote.
Per Marco una tristezza infinita,
questo libro. È scritto bene, indubbiamente, ma è triste. E il fatto è che si
tratta di realtà che resistono tuttora. Lui ci ha visto più una sorta di
istintualità di uno che non ha cultura, non ha niente, una sorta di volersela
godere senza ragionare. Una persona che gli fa una gran tenerezza, perché nessuno
l’ha amato.
Rosanna ha visto un bambino
mandato via di casa, costretto. Attraverso la mano di paura della bambina è
entrato in contatto con la sua paura da piccolo. Lui ce l’ha fatta, ma solo
dopo che ha incontrato Maddalena. Poi, c’è il maestro che lo educa al bello.
Per Ninetto il Paradiso ha la poesia.
Giuseppina ha trovato dei morti
dentro in questi meridionali che vivevano nelle baracche. Se non puoi fare il
bambino, non hai più paura, muori. Secondo lei, Ninetto fa vivere la paura alla
bambina in una situazione in cui un adulto ti tiene la mano. È vero, provi
fastidio alla fine, perché l’impoverimento emotivo è grande. Quell’impoverimento
che lui ha bisogno di condividere con la nipotina, ma non è una consapevolezza
intellettuale. Ci arriva così. La protezione è ricorrente, per lui uomo fatto e
finito. Com’era accaduto quando credeva che la figlia stesse subendo violenza.
Mai avrebbe potuto pensare all’amore.
Marella non l’ha visto come
romanzo storico. Le ha fatto una gran pena quest’uomo, ma anche rabbia. È uno
che si è lasciato vivere. Non ha ricevuto un’educazione e quindi il suo agire è
spesso andato per istinto ed inconsapevolezza. Solo l’azione finale la fa con
consapevolezza, prende l’iniziativa. Non le è piaciuto l’inserimento della
omosessualità (Paolo), anche se io credo sia stata messa per ricambiare la
confidenza appena ricevuta. Trova, invece, molto bella la frase sui figli
vicini. Infine, secondo Marella i riferimenti continui al coltello sono
pensieri di suicidio.
Patrizia B. sperava in una
redenzione finale, ma Ninetto è vittima di se stesso. Ha fatto malissimo con la
bambina.
Per Patrizia R. è un libro
fantastico, con un linguaggio bellissimo, a parte qualche caduta di stile tale
da non renderlo solo una macchietta. Sgorgare, dice, riferito al cuore è
bellissimo. L’ha colpita la figura del maestro.
Carla ha trovato punti belli,
intensi, pieni di sentimento. A Milano dice di aver visto personaggi così, desolanti.
Ninetto è figlio ancora di un’Italia disastrata. Per lei non c’è alcun dubbio.
È un romanzo storico.
A Mario stasera piace ascoltarci.
Il libro lo ha infastidito dal primo momento all’ultimo. Forse non era nel
momento giusto, dice. Ninetto è un personaggio terribile. L’avrebbe ucciso lui
che è uomo. Vorrebbe cose divertenti in questo periodo, Mario, e questo libro
non lo è. Ci ha ammirato molto.
È tenera Maria che si è appena
impegnata a scrivere a Mario le frasi più belle di questo libro, di modo che un
po’ possa salvarlo. Ma Mario ha pienamente ragione, è un libro triste. Ninetto
è un uomo che non si può permettere di esprimere un desiderio, nella stella
cadente che non ha trovato. Sono d’accordo, poi, coi miei Itineranti, vive
molto di istinto. Non poteva avere consapevolezza del suo mandato di padre,
perché lui stesso aveva subìto la mancanza. E, come ha detto Marco, nessuno
l’aveva amato. Neppure i lettori, purtroppo. E forse ci stiamo accanendo su una
vita che aveva esigui strumenti: la poesia e il mito del maestro. Poi, solo
trent’anni di fabbrica e la pesante eredità di non essere stato bambino. Un
tunnel buio definisce gli anni in fabbrica, Ninetto. Al pari del carcere.
Brutti. Gli è davvero mancato essere stato bambino. Perché dove si è stati
piccireddi non è mai completamente brutto.
Giovanni, al suo primo incontro,
è restato ad ascoltarci.
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