Ho letto un libro datato. Si colloca negli anni '70, quando io nascevo. Ma la storia di un'analisi probabilmente si ripete uguale ancora oggi.
Mi ha colpito molto il titolo. E' terribile doversi pensare come malattia. Mi spaventa un malessere così totale.
Ecco una breve recensione.
La malattia chiamata
uomo, questo il titolo di una storia di analisi. Una storia lunga
sette anni fra due uomini, paziente e medico, fatta di silenzi e
rituali, e di parole che non si possono dire in nessun altro luogo.
Una storia di intimità. Di traduzione.
La storia parte da prima,
però. Da altri tentativi di intesa, riusciti male, svolti dall'io
narrante con altri analisti. Si legge una critica a certo modo di
fare analisi. Alle analisi collettive, ad esempio. O a quelle
incapaci di non includere nelle sedute troppi rumori della
quotidianità. Uno sciacquone del water, un figlio che corre, una
moglie che parla al telefono appena un muro di là.
Poi, finalmente, dopo due
anni di attesa, il medico giusto.
Non ha pudore l'autore a
raccontare di un uomo che torna a casa come dissanguato, svuotato, dopo ogni seduta. Un
uomo che si cerca tutti i mali nelle miserie del corpo e gioisce se
ne trova. E il sesso, sempre troppo ingombrante.
L'uomo è una nevrosi
provvisoria nella nevrosi cronica della storia, scrive Camon. La sua
malattia è l'incapacità di dire tutto. La lingua è il virus di
questa malattia. Più l'uomo diventa uomo e si differenzia
dall'animale, più si ammala.
Nella storia, ma pare
anche in generale nella realtà, l'analisi finisce quando il paziente
riconduce il suo analista a uomo. Quando lo ridimensiona. Non è più
un mago. Non è più un traduttore.
Quando, dopo sette anni,
quattro volte a settimana, del suo medico può dire: io non lo
conosco.