Mi ha colpito molto il titolo. E' terribile doversi pensare come malattia. Mi spaventa un malessere così totale.
Ecco una breve recensione.
La malattia chiamata
uomo, questo il titolo di una storia di analisi. Una storia lunga
sette anni fra due uomini, paziente e medico, fatta di silenzi e
rituali, e di parole che non si possono dire in nessun altro luogo.
Una storia di intimità. Di traduzione.
La storia parte da prima,
però. Da altri tentativi di intesa, riusciti male, svolti dall'io
narrante con altri analisti. Si legge una critica a certo modo di
fare analisi. Alle analisi collettive, ad esempio. O a quelle
incapaci di non includere nelle sedute troppi rumori della
quotidianità. Uno sciacquone del water, un figlio che corre, una
moglie che parla al telefono appena un muro di là.
Poi, finalmente, dopo due
anni di attesa, il medico giusto.
Non ha pudore l'autore a
raccontare di un uomo che torna a casa come dissanguato, svuotato, dopo ogni seduta. Un
uomo che si cerca tutti i mali nelle miserie del corpo e gioisce se
ne trova. E il sesso, sempre troppo ingombrante.
L'uomo è una nevrosi
provvisoria nella nevrosi cronica della storia, scrive Camon. La sua
malattia è l'incapacità di dire tutto. La lingua è il virus di
questa malattia. Più l'uomo diventa uomo e si differenzia
dall'animale, più si ammala.
Nella storia, ma pare
anche in generale nella realtà, l'analisi finisce quando il paziente
riconduce il suo analista a uomo. Quando lo ridimensiona. Non è più
un mago. Non è più un traduttore.
Quando, dopo sette anni,
quattro volte a settimana, del suo medico può dire: io non lo
conosco.
Ero più che maggiorenne quando questo libro non ingombrante fisicamente, un pugno allo stomaco nella realtà, apparve. Dopo averlo letto e riletto, lo misi in un piccolo scaffale insieme ai libri per me "sacri", preziosi, che mi hanno aiutata a vivere, mi han preso per mano e aperto gli occhi e fatto compagnia quando la solitudine non era scelta e l'angoscia bussava alla porta dell'anima. Insieme a "Le parole per dirlo" di Marie Cardinal. Qui una donna, in Camon un uomo, entrambi dentro al bisogno di dire e dirsi finalmente tutto e di non sapere come scovarlo, il tutto, che nel buio dell'inconscio li massacra. Lei dedica il suo libro "al medico che mi ha aiutata a nascere" e lo conclude con " alcuni giorni più tardi venne il '68". Camon apre con due piccoli versi dall'Ecclesiaste " si logora ogni parola/di più non puoi farle dire" e conclude con "anche nelle esperienze più nuove e più rivoluzionarie, ognuno impara solo quello che già sa" e, come già sottolineato nella recensione, il protagonista del suo medico può dire: io non lo conosco. Mi viene spontaneo riflettere sull'essere donna e uomo in questa comune esperienza analitica di sette anni per entrambi. Lui forse ha trovato se stesso e non ha più bisogno di parole già dette, dovrà trovarne di nuove, tutte sue. Lei ha trovato le parole per sè che ripeterà regalandole a chi, dentro il '68, ne avrà bisogno. Dovrò rileggerli, entrambi. Assolutamente
RispondiEliminaHo letto entrambi i libri da te citati, Maria. Me li hai prestati tu. Libri importanti, come li definisci. Perchè è fondamentale riconoscersi in certe impotenze, in certe guerre. Sapere che accadono, e sapere che le parole per dire quasi tutto si trovano. Con fatica, con dolore, con vergogna, ma si trovano. E quel che resta fuori dal quasi diviene solo un giusto, sano, silenzio.
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