Ho ancora addosso l’euforia del passaggio di Gianrico e infatti, quando arriva Rosanna in libreria, subito le faccio vedere le foto. Un po’ le dispiace, a Rosanna, di non esserci stata sabato, mannaggia! Ci raggiunge Luigi, sereno, bello, e assieme, loro due, mi precedono alla sede. Io li raggiungo. Ci sono già tutti quelli che ci sono sempre, tranne Lorenzo che arriva poco dopo. Maria, Rosanna, Letizia, Luisa, Katia, Chiara, Luigi, Alberto e io. E poi Lorenzo.
Emmaus. Luigi si era perso la spiegazione del titolo, non la capiva perché ora lui è così bravo come lettore che dal titolo parte, tesse la storia nella sua immaginazione, ma questo titolo gli è risultato difficile. Troppo filosofico. Troppo teologico. Troppo il compiacimento – dell’autore. Emmaus uguale non sapere. Camminarsi a fianco e non conoscersi. Terribile, eppure accade. Katia non trova verosimile questo accadere, soprattutto di una madre, una madre sa. E pensa che la mamma de Il Santo si preoccupi d’altro nella vocazione del figlio. In realtà è che chiede a suoi amici solo perché vuole sapere, conoscere, perché non sa, vuole farsi aiutare da chi lo viveva di più. Il libro sembra sia ambientato sul finire degli anni ’70 quando le differenze sociali erano molto nette, senza contaminazioni, dove in certi ambienti il dolore neanche, sembrava, ci entrasse. A Katia è piaciuta questa descrizione. Io e Maria la troviamo esasperata. Letizia anche, oltre che di denuncia ad una Chiesa a tratti oscura. A Luisa è piaciuto il libro, a Chiara pure. Soprattutto l’io narrante e Andre son piaciuti a Luisa. E giustifica questi quattro ragazzi con le paure dei genitori che, per proteggerli, non permettono loro di vedere davvero le cose come sono. Comincia una discussione su Luca, su Bobby, su Il Santo, su Andrea, sull’io narrante. Luigi pensa che Bobby poteva essere un suo amico, Il Santo non gli è piaciuto. Neanche a me, fin da subito, era troppo irreale. Anche a Maria è piaciuto Bobby, crede sia il più autentico di tutti, rischiando di sbagliare, come farà. Il Santo d’un moralismo bieco. L’io narrante è difeso solo da Luisa e un po’ da Katia. Alberto crede che qualche passo in più poteva farlo, come Bobby, perché l’importante è fare il primo. Oddio! Come Bobby meglio di no visto che intraprende una strada poco stupefacente. Come Il Santo neanche visto che diventa – o era già? – il peggiore di tutti. E come Luca, finisce suicida. Andre, bella sì, regina, ma già morta. L’io narrante assiste alla vita, un po’ come Hervé Joncour. Quindi forse è importante come lo fai il primo passo. Vivendo. Senza noia. Non in geometrie chiuse, come ha detto Rosanna. Che poi queste geometrie, è un attimo, incontrano cunei emotivi dando vita alla tragedia. L’incontro/scontro non ha necessariamente il nome di Andre. Certo che no, dice Lorenzo, Andre è lo strumento, i ragazzi usano Andre per sciogliere le loro emozioni. Già. Chissà come sarebbero finiti questi quattro senza la tragedia, chiede Rosanna. Chissà. La linea di demarcazione non è però così netta, o sempre così netta. È certo che una situazione cronica porta delle conseguenze più eclatanti, più definitive. Meglio i picchi emotivi, sostiene Rosanna. Così il malessere di Luca era già in atto, e da un po’, non voglio pensare che si sia ucciso solo perché suo padre non sopporterebbe la sua paternità, strana. Suo padre non avrebbe sopportato la sua morte, come avviene, ed era questo cui doveva pensare, dice Letizia. Mah! Il libro sembra contenere un equivoco di fondo, interviene Lorenzo. Il papà di Luca sembra depresso, Il Santo sembra santo, Andre sembra morta. L’autore ci fa credere così proprio come spesso nella vita ci lasciamo indurre a credere. Ma niente è come sembra, direbbe Battiato. È non conoscersi, aggiungo io. È non scrutare oltre il ciò che sembra, appunto. Quante volte facciamo delle cose che agli occhi degli altri sembrano stranezze? E invece solo esattezze del nostro animo, della nostra anima. Al povero papà di Luca gli viene affibbiato un pensiero di morte solo perché nel silenzio e nella contemplazione dall’alto trova pace. Sto pensando alle mie stranezze, d’estate fuori con le stelle, d’inverno dentro con il fuoco, ore ed ore. Allora qualcuno potrebbe presumere per me pensieri definitivi come scomparire oltre l’universo o darmi fuoco! No, è solo contemplare in assonanza con la mia anima. Il papà di Luca non era depresso. E Luca non può essersi ucciso solo per non dispiacergli di una possibile paternità, strana. Il suo male c’era, anche prima. Il papà di Luca è tenero, comprende l’assenza dell’io narrante al funerale, lo abbraccia, gli parla, racconta del suo amore, di quando faceva l’amore. È una persona normale. Che strano. Era stato il sesso forse a traviarlo, la demonizzazione del sesso, ma di sesso così bello, di amore, l’io narrante non vuole sentire parlare. Che strani che siamo. Come se i nostri genitori fossero asessuati. Ma tutti questi figli, noi figli siamo nati e non saranno stati asessuati allora, i nostri genitori. Gli occhi vuoti della Vergine nelle iconografie, perfezione dell’arte, non sono gli occhi vuoti della Chiesa, imperfetta forse, quando dimentica che il sesso è la comunicazione dell’amore. Quando lo demonizza ed è impuro, non commettere atti impuri, dice. E allora a volte si veste di tuniche perché siano puri. Letizia ci vede una denuncia sottovoce della pedofilia tra i banchi o nelle sagrestie. Mi sta rattristando questo diario, sto pensando troppo. Passiamo all’estetica. Lorenzo chiede se è riconoscibile, Emmaus, come libro di Baricco. Io penso di sì. Ci sono dei ritorni proprio suoi. La bellezza estetica non è certo quella di seta dove è stata ricercata esattamente, ma se ne riconosce lo stesso autore. Rosanna trova che il libro abbia il tenore di una predica togliendo molto alla storia, all'avventura. Già. Solo quando si stacca dalla teologia rivela delle intuizioni profonde. Maria legge.
Ci disarma, infatti, l’inclinazione a pensare che la nostra vita sia, innanzitutto, un frammento conclusivo della vita dei nostri genitori, solo affidato alla nostra cura. Come se ci avessero incaricato, in un momento di stanchezza di tenere un attimo quell’epilogo per loro prezioso – ci si aspettava da noi che lo restituissimo, prima o poi, intatto. L’avrebbero poi ricollocato a posto, formando la rotondità di una vita compiuta, la loro. Ma ai nostri padri stanchi, che si erano fidati di noi, noi restituiamo il taglio di cocci affilati, oggetti scappati di mano. Nel sordo strisciare di un simile fallimento, non troviamo il tempo di riflettere, né la luce di una ribellione. Solo l’immobilità sorda della colpa. Così tornerà nostra, la nostra vita, quando sarà ormai troppo tardi.
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