No. Non sono io.
L'autobus si è fermato al rosso di un semaforo. La strada è così stretta in quel punto che il portico è proprio di là dal vetro del finestrino e la gente a piedi cammina e si affianca con quella a bordo.
Ad ogni fermata dell'autobus alza lo sguardo da una lettura vera o finta, dipende. Oggi finta. E' uscita presto, ha provato più di un paio di scarpe, rosse, azzurre, nere. Nere. Voltandosi i capelli si muovono liberando l'odore del balsamo di una doccia di meno di due ore. Il suo cruccio sono le mani, ruvide e secche, poi anche i pensieri, ma i capelli no, neppure i bianchi che sono comparsi vicino alle tempie. S'immagina e si piace nel nero tagliato a metà, incorniciata dalla carrozzeria dell'autobus. Fa l'impiegata a milleduecento euro al mese.
E' sporca. Cammina piano, trascinando i piedi in un paio di pantofole bianche consumate. Magra, si volta senza che i capelli ne seguano il movimento per quanto sono sporchi. In mano una lattina di Heineken e la sciarpa rosso blu al collo. Non è freddo, ma era freddo stanotte, forse. Si ferma e la guarda. La mano senza la lattina, rossa d'alcool, saluta piano, riceve un sorriso, risponde con un bacio disperato. Si vergogna della sua intera figura. Il suo numero di cellulare è scritto nei bagni della stazione.
Quando scatta il verde ognuna vede allontanare l'altra. Ancora baci disperati e sorrisi di tenerezza si alternano riconosciuti in uno stesso pensiero, di passanti.
No. Non sono io.
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