Ci sono "grazie" che si dicono senza pensare, negli automatismi del
nostro quotidiano, nei bar dove ordiniamo un caffè, alla commessa di un
negozio, al passante che ci indica una strada che non conosciamo,
all'edicolante o al portiere d'albergo, ovunque e con chiunque ci venga
naturale, appena usciamo di casa e ci muoviamo nel mondo. Ci sono
"grazie" che si dicono distrattamente, per buona educazione, e altri che
ci fanno brillare gli occhi o accennare un sorriso. Ci sono i
"grazie"sussurrati e emozionati, i "grazie" che ci sorprendono, i
"grazie" informali e quelli che ci cambiano la vita. La gratitudine è un
sentimento adulto, più si cresce e più si ha bisogno di manifestarla,
prima che sia tardi, prima che ce ne scordiamo, per un'attenzione o un
dono o una presenza, per qualcuno che c'è o che c'è stato. "Grazie" è
una parola che non sente stanchezza e non contempla silenzi. Va detta.
Sempre. Perché, come diceva Ibsen: "Nessuno vuol essere un'isola".
Grazia Verasani
Ho trovato questo testo in un librino intitolato "La gentilezza nei luoghi di cura". Non so più neanche dove l'ho preso, forse da Nicoletta alla Trame. E' parte di un progetto che vuole contribuire al rilancio del senso civico. Le storie più significative realizzate - leggo nel libretto - sono su www.lacittacivile.it. Il sociologo Ilvo Diamanti dice che da quand'era bambino è stato educato a salutare tutti quelli che incontra sulla sua strada, e ha mantenuto questa abitudine perché "serve a stabilire una relazione. Un legame. Nulla di vincolante. Ma la persona con cui hai "scambiato" il saluto - dopo - non è più un "altro". Diventa un "prossimo". Semplice, no? Che ci vuole? Eppure tutti noi abbiamo sperimentato e ancora sperimentiamo volti che si increspano di diffidenza al nostro saluto. Io me ne frego e li risaluto. Ciao a tutti!
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