Itinerari di Lettura
ha incontrato Giuseppe Marotta, autore de E i bambini osservano muti. Un
buon libro d'esordio. E lui, l'autore, onesto, semplice e innocente
nel raccontarsi a noi. Non avrebbe scritto un Remì così se fosse
stato diverso.
Subito, perché questa storia?
È stato un film a suggerirmi l'idea. S'inserisce in
un filone secondo cui nasci in una famiglia e così resti. Volevo
dimostrare che può esserci un percorso diverso. E nel tentativo di
dimostrare questo m'è venuto spontaneo pensare all'amore materno.
L'unico amore che può scombinare un destino segnato. Così alla fine
mi sono reso conto di avere scritto un romanzo d'amore, della madre
verso il figlio e del figlio verso la madre. E' stato un fatto di
cronaca a darmi il vero spunto però. Un fatto che mi ha colpito
molto. Un ragazzino della famiglia dei casalesi che si impicca perché
ormai si vergogna di suo padre. Non è vero dunque il destino. Dentro
c'è altro. Il mio libro cerca di riavvolgere il nastro del destino
di questo bambino, Remì.
Ecco. Perché l'hai fatta raccontare a un
bambino, la storia?
Era inevitabile che fosse un bambino a raccontarla.
È la voce più credibile. Gli adulti, dopo mille promesse o mille
balle, diventano difficili da credere.
In più è un bambino onesto. Così onesto che è
pure combattuto. Alcune cose gli fanno schifo, altre gli piacciono, e
sono nello stesso mondo camorristico.
Già. Remì ha questo nonno, il boss, che si
trasforma da balocco in orco. Un bambino non può che vivere in
maniera esaltante il gioco, anche quando è il gioco di imparare a
sparare. Ma quando la madre viene condannata a morte entra in
conflitto d'amore.
Sarebbe stato un camorrista Remì?
Sicuramente. Ora invece me lo immagino in America,
lontano. Che guarda al suo Paese con nostalgia. Attenzione però,
anche il padre di Remì non riesce a vivere quella vita
affibbiatagli, una vita che lo vuole almeno una volta in galera.
Perché un uomo vero in galera ci sta.
La madre di Remì collaborava col boss anche
prima del matrimonio. Cambia o aveva un piano?
Cambia. Cambia per amore del figlio, appunto. Ho
pensato a Lea Garofalo. L'amore passionale è solo uno strumento qui.
È l'amore per il figlio che mette alle strette Giovanna. Un amore
che non aveva previsto. Ancora è accaduto, ad esempio, che una madre
per amore di un figlio camorrista abbia indicato lei stessa la botola
del nascondiglio, per salvarlo, per mettere fine a un crimine. Perché
arriva un punto dove la donna si blocca, non si pente per calcolo,
come spesso i criminali uomini. Dice semplicemente basta.
Non così Rusinella, madre anche lei, moglie del
boss e a questi completamente asservita.
Rusinella è la generazione a confronto con quella
di Giovanna. Non si sarebbe mai ribellata al marito, e soprattutto al
marito boss. Giovanna è ribelle. Antonio la ama. Remì è un bambino
figlio dell'amore.
Il bambino racconta come attraverso un vetro.
L'emozione c'è solo quando se la fa addosso.
A maggior ragione doveva essere il bambino a
raccontare la storia. Perché è la storia di una famiglia che
implode, vista dall'esterno. È la storia di un bambino che ama
incondizionatamente i genitori. Ho pensato a Santino di Matteo, il
bambino sciolto nell'acido dal clan rivale a quello della sua
famiglia. Quando lo vanno a prelevare, desiderava solo vedere suo
padre. È questo desiderio, questo amore, che mi ha dato la forza di
insistere sull'idea di romanzo che avevo. Insistere sull'amore.
L'unica possibilità di cambiamento è instillare un pensiero
diverso. Giovanna, pur dentro la famiglia, ci è riuscita. Scappa con
il figlio di un altro boss solo per escamotage narrativo.
Che il nonno muore il lettore lo sa sin dalle
prime pagine. Ma non trapela null'altro dalla rivelazione, nessuna
emozione, neppure commozione. Lo sapeva Remì che sarebbe arrivato a
tanto? Lo sapeva Giuseppe Marotta che un suo personaggio avrebbe
ucciso?
È un gesto simbolico l'assassinio del nonno.
Qualcuno ha scritto che il bambino così non si salva. Ma c'era
bisogno di un gesto forte. La gente doveva vedere il sangue per
svegliarsi. Io credo d'aver scritto un finale di speranza, di
salvezza. Ma prima volevo gridare, e potevo farlo solo con un gesto
così forte, un gesto che dicesse che è stata la famiglia stessa a
creare l'arma.
Con questo gesto il bambino si libera della paura
di non rivedere la madre. Fluisce, la paura, così come il sangue che
scorre. Fluisce e libera l'amore dall'etica.
Gli è occorso un coraggio enorme, sì.
Suo padre lo avrebbe fatto? È stato solo
anticipato?
Lo avrebbe fatto, sì. Erano entrambi sul luogo del
delitto. Ed era ribelle e coraggioso anche lui. Perché non è
facile, in una famiglia, mettersi contro dei valori condivisi,
disattendere un ordine. E lui aveva l'ordine di uccidere sua moglie.
Lui è coraggioso anche solo perché non fa, non vuole fare, cose di
camorra.
Infatti c'è speranza che un figlio possa non
essere come i genitori. Ad Antonio i lettori rimproverano solo le
mazzate alla moglie.
Era l'unico modo per 'rispettare' il padre boss.
Picchiare la moglie, poi supplicarla nell'intimità della notte di
perdonarlo, far vedere alla famiglia che era comunque un uomo, ma
solo perché attendeva una via di fuga.
Questa storia è stata letta da studenti di
seconda media. Come hanno reagito, soprattutto al gesto finale?
Ha fatto bene, hanno detto.
I rituali criminali sono di tua conoscenza per
esperienza diretta o indiretta?
Ho vissuto a Pompei e a Napoli. No, non è la mia
storia quella che ho scritto. Ma, se si vive in certi posti, è
facile conoscere i rituali. Le cose si sentono, si leggono pure.
Quando ho fatto il militare, sempre in Campania, la gran parte dei
commilitoni era camorrista.
La storia incredibile e terribilmente emblematica
del lampadario?
È stata la casa di D'Annunzio, assieme al
lampadario grande di mia sorella, a darmi lo spunto. M'è venuto
facile unire le due immagini e crearne una criminale, dove è
necessario ossequiarsi. Nel libro l'ossequio è fisico e doloroso, ma
ci sono situazioni dove è sottile e anche più pericoloso. E per
queste ho pensato a zio Geggè, vero emblema del sistema
camorristico.
Ti è costato dire queste cose su un luogo che ti
appartiene?
No. E' stato un atto d'amore. Napoli è anche brava
gente e Remì lo dice bene quando si chiede perché è nato proprio
in quella famiglia.
Hai avuto delle ripercussioni?
No. Ma quando l'ho presentato a Napoli il pubblico
era di quattro persone. Poi in una scuola, dove i professori non
avevano letto il libro, quindi non erano preparati, sono stato
invitato ad andarmene, dopo aver letto un brano. I ragazzi avevano
applaudito, ma il preside non aveva apprezzato.
Avevi pensato a un pubblico giovane?
No. E' stata una bella sorpresa, soprattutto coi
ragazzi di seconda media, preparati e acuti.
Torniamo a Giovanna. Ma perché va via e lascia
il bambino da solo?
Ce lo spiega bene Remì. Non è stato lasciato solo.
È stato lasciato alla famiglia, che seppure criminale, è la
famiglia che lo ama e lo protegge, è al sicuro lì. La madre ha un
progetto che ha solo iniziato con la fuga d'amore. Tutto il resto, la
collaborazione col magistrato, se raccontata, avrebbe solo
appesantito il lettore.
Il lettore un po' resta deluso però quando
scopre che Giovanna teneva i conti del boss...
...aveva studiato ragioneria! È reale, bisogna
assolverla.
Non credi che non bisognerebbe mettere
sull'altare l'amore materno? Ci sono madri che scendono in piazza, ma
per difendere figli camorristi.
È sempre amore materno secondo il loro codice. Ma,
davvero, ho raccontato una storia secondo la mia esperienza, secondo
la mia idea di amore. Riflettevo sulle paure di un bambino che poi
erano le mie paure. È l'amore di mia madre, il mio per lei, quello
raccontato.
Stai scrivendo di nuovo?
Sto raccogliendo materiale dal mio lavoro. Sono
ufficiale giudiziario. Ci sono tante storie, c'è tanta disperazione.
La poesia iniziale è tua?
Sì. E' poi diventata titolo del libro. È questo
che fanno i bambini. Osservano i giochi degli adulti. Gli adulti sono
una giostra.
Quanto pensi siano mancanti gli adulti in una
sottocultura?
Tantissimo. Ci vorrebbero più cose. Più cose di
politica, più cose di cinema, più cose di calcio, più cose per
elevare...l'animo. La cultura è concime per la mente. Malala dice
che basta una matita.
Bisogna creare l'alternativa all'andarsene da un
luogo contaminato, insomma.
Sì. Ma se non ce la si fa a restare, penso che si
possa e si debba andare. Immolarsi ad un luogo, no. Ci vuole coraggio
ad andarsene come a restare. Napoli è una città con persone per
bene, lo abbiamo detto, ma con la particolarità che una minoranza
tiene in scacco la maggioranza.
Esiste il Mercato a
Napoli?
È uno spiazzo inventato. Immaginato dai luoghi di
dittatura. Avevo bisogno di un luogo di paura. Ho lavorato molto sui
simboli, come sulla lingua.
E dall'altro lato del cammino?
È il verso di una poesia sulla morte, che non è
niente, sono solo andato nella stanza accanto. Parlatemi come mi
avete sempre parlato. È mio fratello dall'altro lato del
cammino, assieme ai miei genitori.
E' andata proprio così. Son queste le cose che ci siamo detti all'incontro. E leggendo il resoconto così fedele e ricco si capisce anche che persona è Giuseppe, la sua disponibilità a raccontarsi e a raccontarci, così generosamente, con calore, con slancio, con impeto. Facendoci toccare con mano come e quanto crede a quello che ci ha detto e in particolare alla forza dell'amore tra madre e figlio, tra uomo e donna, tale da ribaltare regole, valori, comportamenti, a rischio anche della vita. Ha raccontato il male facendo vincere il bene, attraverso l'amore, appunto. E non è una favoletta, è un inno alla speranza, alla fiducia, alla necessità di non mollare. Mai. Grazie, Giusé.
RispondiEliminaGrazie a voi che mi avete dato questa possibilità. Ho scoperto aspetti nuovi del mio romanzo che non avevo considerato. E' stato uno scambio proficuo, una serata intensa, ma allegra.
RispondiEliminaUn caro saluto
Giuseppe