Non andare cercando quale sorte il destino ha assegnato a me, a te; non consultare i maghi d'Oriente. E' meglio - vedi - non sapere; è meglio sopportare quello che verrà. Forse molti anni ancora stanno davanti a noi; forse questo inverno, che le onde del tirreno fiacca su la scogliera, è l'ultimo. Ma tu ragiona, vivi felice, e, poiché breve è la nostra vicenda, non inseguire i sogni di un futuro lontano. Ecco, mentre noi parliamo, il tempo invidioso se ne va. Cogli questo giorno che fugge, e non fidarti mai del domani.
(da Orazio, Odi, I, II)

mercoledì 18 dicembre 2013

Auguri di cuore

A
Maria
Sarah Elke
Lavinia Sara 
Marco Giuliana
Rosanna Luigi 
Patrizia Marina Paola Cinzia
Alessandra Luisa Lorenzo Mattia
Matteo Marella Rebecca Nazario Paolo 
Luciana Anna
Marcello Stefania Otello Giustino
Armando Elisabetta Marisa Chiara Giusy Romana 
Deborah Raffaella Nicoletta Lucia Mauro Letizia Mirca
Silvia Amneris Giuseppe Valerio Matteo M. Luisa L. Mariapia 

AUGURI
di cuore




lunedì 16 dicembre 2013

Sei come sei, Melania Mazzucco

E' un libro difficile quello di questa sera. È la storia di Eva, figlia di due padri. Uno, quello naturale, muore. Erano andati a concepirla in Armenia.
A discutere di questa ragazzina siamo in tanti. C'è pure Luigi, di nuovo. Poi Sarah, Marco, Maria, Giuliana, Patrizia, Marina, Anna, Lavinia, Rosanna e io.
Preferisco ascoltare gli altri prima. A tratti ho avuto la sensazione di Eva come di una bambina disturbata. E non so dire se è per la situazione familiare.
Per Maria non è disturbata affatto. Anzi, è straordinaria. Le succedono cose particolari, poi è vittima di bullismo. L'inicidente non è l'effetto di alcun disturbo, il ragazzino le piaceva. Sì, ma si capisce solo alla fine, fa notare Marina, forse per questo il gesto di spingerlo sotto il treno. Ma no, continua Maria, la sensazione c'era. A Eva dobbiamo pensare come ad una ragazzina violentata dai parenti che l'hanno allontanata dall'unico uomo che era la sua famiglia.
Giuliana pensa che questo sia un libro sulla maternità negata, la bambina non può che uscirne annichilita. Poi, il libro le è sembrato scritto male. Ecco. Anche Sarah lo pensa e lo dice con delusione perché Vita (un successo dell'autrice) le era piaciuto molto.
Marco non crede sia un brutto libro questo. Lui non nasconde i suoi pregiudizi influenzati da un pensiero incentrato sulla Creazione. Però capisce che ci possa essere l'amore tra due persone dello stesso sesso. Fa più fatica a capire il desiderio di maternità. Si mette dalla parte del più debole, che è Eva in uesto caso. A questa bambina manca qualcosa che non è nella natura dell'uomo, l'uomo ha forzato la mano in ragione di un puro egoismo. In che senso? Chiede Maria, secondo la quale l'amore non dev'essere fecondo. L'amore è fecondo perché amore. Nella coppia della storia c'è un rispetto fortissimo tra loro e il desiderio di avere un figlio è dell'amore. Marco ribadisce che gli pare una forzatura. Una forzatura, allora, anche quando avviene in coppie etero, come abbiamo visto ne Le difettose, insiste Maria. Marco a questo punto dice che vorrebbe conoscere delle persone che hanno vissuto cose così, per poter chiedere e capire. Giuliana e Marina sono sulla linea dell'egoismo. Anche perché, fa notare Marina, i due cercano un figlio quando si accorgono d'essere in crisi. Stessa dinamica che purtroppo si ripete nelle coppie etero. Maria legge un pezzo di storia dove è fuori di dubbio che fossero in crisi, loro il figlio lo volevano proprio. Tutti nella discussione sembriamo tifare per Giose, il padre sopravvissuto. Luigi è incuriosito da questa cosa. Si vede poi sulle posizioni di Marco. Lui non è gay e vuole rimanere così. Giuliana gli risponde dicendo che Christian è freddo, ecco perché. Lavinia l'avrebbe mandata volentieri in collegio, Eva. E Rosanna chiude dicendo che l'egoismo c'è sempre, in qualsiasi coppia. Qui, quello che è mancato davvero è la gestazione. Cosa che nelle coppie lesbiche invece si trova ancora.
Tutti siamo d'accordo che, forse, per ragioni letterarie, tutta la parte legale sia stata omessa. In Italia non c'è ancora una legislazione sul tema.
Io, fino alla fine, mi avvalgo del mio agnosticismo. Perché tutto quello che riesco a pensare è che la natura non si spinge così oltre. Spesso si ferma. Di qualsiasi genere siano le coppie.

mercoledì 11 dicembre 2013

I grazie

Ci sono "grazie" che si dicono senza pensare, negli automatismi del nostro quotidiano, nei bar dove ordiniamo un caffè, alla commessa di un negozio, al passante che ci indica una strada che non conosciamo, all'edicolante o al portiere d'albergo, ovunque e con chiunque ci venga naturale, appena usciamo di casa e ci muoviamo nel mondo. Ci sono "grazie" che si dicono distrattamente, per buona educazione, e altri che ci fanno brillare gli occhi o accennare un sorriso. Ci sono i "grazie"sussurrati e emozionati, i "grazie" che ci sorprendono, i "grazie" informali e quelli che ci cambiano la vita. La gratitudine è un sentimento adulto, più si cresce e più si ha bisogno di manifestarla, prima che sia tardi, prima che ce ne scordiamo, per un'attenzione o un dono o una presenza, per qualcuno che c'è o che c'è stato. "Grazie" è una parola che non sente stanchezza e non contempla silenzi. Va detta. Sempre. Perché, come diceva Ibsen: "Nessuno vuol essere un'isola". 

 Grazia Verasani

venerdì 6 dicembre 2013

Anch'io canto l'America

E' morto il simbolo della lotta alla segregazione razziale in Sudafrica, e ovunque.
La poesia, che riporto di seguito, l'ho imparata in terza elementare. Mi fece soffrire molto all'epoca. Ma non avevo colto, ricordo, il vero senso, non avevo inteso chi fosse il fratello più scuro. Solo, tifavo per lui perché diventasse forte.
Alle scuole medie la rivelazione. Un testo in inglese sull'apartheid con una immagine efficacissima di panchine vietate ai neri. Eccolo il fratello più scuro, non era un bambino lasciato solo a mangiare in cucina. Eccolo, Madiba, è diventato forte.

Anch’io canto l’America.
Io sono il fratello più scuro.
Mi mandano a mangiare in cucina
Quando vengono ospiti,
ma io rido
e mangio bene
e divento forte.
Domani,
siederò a tavola
quando vengono gli ospiti.
Allora
Nessuno oserà
Dire di me
E poi,
vedranno come sono bello
e si vergogneranno:
anch’io sono l’America.

                            (Lungston Hughes)

domenica 1 dicembre 2013

Incontriamo Remì o Giuseppe Marotta, che è lo stesso

Itinerari di Lettura ha incontrato Giuseppe Marotta, autore de E i bambini osservano muti. Un buon libro d'esordio. E lui, l'autore, onesto, semplice e innocente nel raccontarsi a noi. Non avrebbe scritto un Remì così se fosse stato diverso.

Subito, perché questa storia?
È stato un film a suggerirmi l'idea. S'inserisce in un filone secondo cui nasci in una famiglia e così resti. Volevo dimostrare che può esserci un percorso diverso. E nel tentativo di dimostrare questo m'è venuto spontaneo pensare all'amore materno. L'unico amore che può scombinare un destino segnato. Così alla fine mi sono reso conto di avere scritto un romanzo d'amore, della madre verso il figlio e del figlio verso la madre. E' stato un fatto di cronaca a darmi il vero spunto però. Un fatto che mi ha colpito molto. Un ragazzino della famiglia dei casalesi che si impicca perché ormai si vergogna di suo padre. Non è vero dunque il destino. Dentro c'è altro. Il mio libro cerca di riavvolgere il nastro del destino di questo bambino, Remì.
Ecco. Perché l'hai fatta raccontare a un bambino, la storia?
Era inevitabile che fosse un bambino a raccontarla. È la voce più credibile. Gli adulti, dopo mille promesse o mille balle, diventano difficili da credere.
In più è un bambino onesto. Così onesto che è pure combattuto. Alcune cose gli fanno schifo, altre gli piacciono, e sono nello stesso mondo camorristico.
Già. Remì ha questo nonno, il boss, che si trasforma da balocco in orco. Un bambino non può che vivere in maniera esaltante il gioco, anche quando è il gioco di imparare a sparare. Ma quando la madre viene condannata a morte entra in conflitto d'amore.
Sarebbe stato un camorrista Remì?
Sicuramente. Ora invece me lo immagino in America, lontano. Che guarda al suo Paese con nostalgia. Attenzione però, anche il padre di Remì non riesce a vivere quella vita affibbiatagli, una vita che lo vuole almeno una volta in galera. Perché un uomo vero in galera ci sta.
La madre di Remì collaborava col boss anche prima del matrimonio. Cambia o aveva un piano?
Cambia. Cambia per amore del figlio, appunto. Ho pensato a Lea Garofalo. L'amore passionale è solo uno strumento qui. È l'amore per il figlio che mette alle strette Giovanna. Un amore che non aveva previsto. Ancora è accaduto, ad esempio, che una madre per amore di un figlio camorrista abbia indicato lei stessa la botola del nascondiglio, per salvarlo, per mettere fine a un crimine. Perché arriva un punto dove la donna si blocca, non si pente per calcolo, come spesso i criminali uomini. Dice semplicemente basta.
Non così Rusinella, madre anche lei, moglie del boss e a questi completamente asservita.
Rusinella è la generazione a confronto con quella di Giovanna. Non si sarebbe mai ribellata al marito, e soprattutto al marito boss. Giovanna è ribelle. Antonio la ama. Remì è un bambino figlio dell'amore.
Il bambino racconta come attraverso un vetro. L'emozione c'è solo quando se la fa addosso.
A maggior ragione doveva essere il bambino a raccontare la storia. Perché è la storia di una famiglia che implode, vista dall'esterno. È la storia di un bambino che ama incondizionatamente i genitori. Ho pensato a Santino di Matteo, il bambino sciolto nell'acido dal clan rivale a quello della sua famiglia. Quando lo vanno a prelevare, desiderava solo vedere suo padre. È questo desiderio, questo amore, che mi ha dato la forza di insistere sull'idea di romanzo che avevo. Insistere sull'amore. L'unica possibilità di cambiamento è instillare un pensiero diverso. Giovanna, pur dentro la famiglia, ci è riuscita. Scappa con il figlio di un altro boss solo per escamotage narrativo.
Che il nonno muore il lettore lo sa sin dalle prime pagine. Ma non trapela null'altro dalla rivelazione, nessuna emozione, neppure commozione. Lo sapeva Remì che sarebbe arrivato a tanto? Lo sapeva Giuseppe Marotta che un suo personaggio avrebbe ucciso?
È un gesto simbolico l'assassinio del nonno. Qualcuno ha scritto che il bambino così non si salva. Ma c'era bisogno di un gesto forte. La gente doveva vedere il sangue per svegliarsi. Io credo d'aver scritto un finale di speranza, di salvezza. Ma prima volevo gridare, e potevo farlo solo con un gesto così forte, un gesto che dicesse che è stata la famiglia stessa a creare l'arma.
Con questo gesto il bambino si libera della paura di non rivedere la madre. Fluisce, la paura, così come il sangue che scorre. Fluisce e libera l'amore dall'etica.
Gli è occorso un coraggio enorme, sì.
Suo padre lo avrebbe fatto? È stato solo anticipato?
Lo avrebbe fatto, sì. Erano entrambi sul luogo del delitto. Ed era ribelle e coraggioso anche lui. Perché non è facile, in una famiglia, mettersi contro dei valori condivisi, disattendere un ordine. E lui aveva l'ordine di uccidere sua moglie. Lui è coraggioso anche solo perché non fa, non vuole fare, cose di camorra.
Infatti c'è speranza che un figlio possa non essere come i genitori. Ad Antonio i lettori rimproverano solo le mazzate alla moglie.
Era l'unico modo per 'rispettare' il padre boss. Picchiare la moglie, poi supplicarla nell'intimità della notte di perdonarlo, far vedere alla famiglia che era comunque un uomo, ma solo perché attendeva una via di fuga.
Questa storia è stata letta da studenti di seconda media. Come hanno reagito, soprattutto al gesto finale?
Ha fatto bene, hanno detto.
I rituali criminali sono di tua conoscenza per esperienza diretta o indiretta?
Ho vissuto a Pompei e a Napoli. No, non è la mia storia quella che ho scritto. Ma, se si vive in certi posti, è facile conoscere i rituali. Le cose si sentono, si leggono pure. Quando ho fatto il militare, sempre in Campania, la gran parte dei commilitoni era camorrista.
La storia incredibile e terribilmente emblematica del lampadario?
È stata la casa di D'Annunzio, assieme al lampadario grande di mia sorella, a darmi lo spunto. M'è venuto facile unire le due immagini e crearne una criminale, dove è necessario ossequiarsi. Nel libro l'ossequio è fisico e doloroso, ma ci sono situazioni dove è sottile e anche più pericoloso. E per queste ho pensato a zio Geggè, vero emblema del sistema camorristico.
Ti è costato dire queste cose su un luogo che ti appartiene?
No. E' stato un atto d'amore. Napoli è anche brava gente e Remì lo dice bene quando si chiede perché è nato proprio in quella famiglia.
Hai avuto delle ripercussioni?
No. Ma quando l'ho presentato a Napoli il pubblico era di quattro persone. Poi in una scuola, dove i professori non avevano letto il libro, quindi non erano preparati, sono stato invitato ad andarmene, dopo aver letto un brano. I ragazzi avevano applaudito, ma il preside non aveva apprezzato.
Avevi pensato a un pubblico giovane?
No. E' stata una bella sorpresa, soprattutto coi ragazzi di seconda media, preparati e acuti.
Torniamo a Giovanna. Ma perché va via e lascia il bambino da solo?
Ce lo spiega bene Remì. Non è stato lasciato solo. È stato lasciato alla famiglia, che seppure criminale, è la famiglia che lo ama e lo protegge, è al sicuro lì. La madre ha un progetto che ha solo iniziato con la fuga d'amore. Tutto il resto, la collaborazione col magistrato, se raccontata, avrebbe solo appesantito il lettore.
Il lettore un po' resta deluso però quando scopre che Giovanna teneva i conti del boss...
...aveva studiato ragioneria! È reale, bisogna assolverla.
Non credi che non bisognerebbe mettere sull'altare l'amore materno? Ci sono madri che scendono in piazza, ma per difendere figli camorristi.
È sempre amore materno secondo il loro codice. Ma, davvero, ho raccontato una storia secondo la mia esperienza, secondo la mia idea di amore. Riflettevo sulle paure di un bambino che poi erano le mie paure. È l'amore di mia madre, il mio per lei, quello raccontato.
Stai scrivendo di nuovo?
Sto raccogliendo materiale dal mio lavoro. Sono ufficiale giudiziario. Ci sono tante storie, c'è tanta disperazione.
La poesia iniziale è tua?
Sì. E' poi diventata titolo del libro. È questo che fanno i bambini. Osservano i giochi degli adulti. Gli adulti sono una giostra.
Quanto pensi siano mancanti gli adulti in una sottocultura?
Tantissimo. Ci vorrebbero più cose. Più cose di politica, più cose di cinema, più cose di calcio, più cose per elevare...l'animo. La cultura è concime per la mente. Malala dice che basta una matita.
Bisogna creare l'alternativa all'andarsene da un luogo contaminato, insomma.
Sì. Ma se non ce la si fa a restare, penso che si possa e si debba andare. Immolarsi ad un luogo, no. Ci vuole coraggio ad andarsene come a restare. Napoli è una città con persone per bene, lo abbiamo detto, ma con la particolarità che una minoranza tiene in scacco la maggioranza.
Esiste il Mercato a Napoli?
È uno spiazzo inventato. Immaginato dai luoghi di dittatura. Avevo bisogno di un luogo di paura. Ho lavorato molto sui simboli, come sulla lingua.
E dall'altro lato del cammino?
È il verso di una poesia sulla morte, che non è niente, sono solo andato nella stanza accanto. Parlatemi come mi avete sempre parlato. È mio fratello dall'altro lato del cammino, assieme ai miei genitori.




venerdì 22 novembre 2013

Un altare per la madre, Ferdinando Camon

Quello che mi è capitato tra le mani è un libro rivelazione. Non conoscevo Ferdinando Camon. Narra della morte della madre e della costruzione di un altare nel luogo in cui uno straniero, proprio dalla madre, era stato salvato. 
Il libro è breve, ma denso di poesia e semplicità. Vi bastino frasi come La bara avanzava ondeggiando e Invecchiò presto. E' commovente, ma non ho pianto.
E' un libro contadino. 
Mi ha colpito come per tutto il racconto la donna sarà sempre la madre e non mia madre (di chi racconta). Forse è solo una traslazione dialettale, perché altrove si rinviene anche il padre e la sorella, ma ai fini della storia quell'indeterminatezza, che è pure coralità, acquista la potenza precisa del messaggio: abbiamo tante occasioni per meritare di restare in questo mondo anche dopo. Per meritare il nostro altare. 
Inutile dire che la scrittura di Camon è limpida, senza vane arzigogolature.

domenica 17 novembre 2013

Sopravvissuta ad Auschwitz, Eva Schloss

Il sottotitolo di questo libro è La vera e drammatica storia della sorella di Anne Frank. E ancora Una storia che inizia dove drammaticamente il diario di Anne Frank finisce. Il lettore deve fidarsi della sua memoria prima di leggere la seconda di copertina. Non è la storia di Margot Frank. E' la storia di Eva. Sua madre sposò il padre di Anne.
A caso, mi sono ritrovata a iniziare a leggere questo libro da uno degli ultimi capitoli, Tornare, e mi ha commosso. Ho riconsociuto le sensazioni, sono tornata a sentire l'orrore calarmi addosso, con in più tutta la pena per questa donna che ad Auschwitz tornava da sopravvissuta. In questo capitolo Eva dice che non ha provato alcun senso di risoluzione tornandoci, e le credo. 
Poi ho letto il libro dall'inizio alla fine, com'è normale. Ci sono capitoli, pure tragici, ben lontani dalla commozione finale. L'ho addebitato al fatto che il libro è stato scritto a quattro mani con una giornalista. Ci sono insinuazioni e brevi generalizzazioni buttate qua e là. Tracce di moralismo odierno che nulla c'entrano con l'Olocausto e la Memoria. Ma ciò che mi è dispiaciuto di più di questo libro è la diffidenza continua verso il lettore.
Infine sono arrivata all'ultimo capitolo. Un paragrafo recita così. 
Milioni di persone visitano Auschwitz ogni anno e ho sentito dire che c'è un'enorme calca che attraversa l'ingresso e si aggira per il campo indossando le cuffie di un tour guidato. Ho conosciuto delle persone, alcuni di loro ebrei, che visitano molti siti di campi di concentramento, ricavando una sorta di eccitazione dall'orribile sensazione di trovarsi in mezzo a morte e terrore.  
Alcuna eccitazione, Eva. E' davvero un viaggio educativo, di memoria, commemorativo. Non un tour, le cuffie sono di supporto alla percezione del dolore. La gente non si aggira ad Auschwitz. Segue un corteo funebre ben composto nel quale si percepisce tutto il senso del limite del proprio essere al mondo.

giovedì 14 novembre 2013

Saviano legge Levi, Se questo è un uomo

Qui.

Anche per me è uno dei libri maestri. Rileggerlo dopo aver visto Auschwitz davvero dà la misura dell'uomo, di ogni sua capacità, positiva e negativa. 


E' uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell'uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce. 

In mezzo alla solitudine di Auschwitz - Birkenau queste parole mi sono risuonate vivide, anche senza memoria di lettura.

mercoledì 13 novembre 2013

il gesù di tutti, vittorino andreoli

Quando, a diciotto anni, da credente, da chi crede di credere, sono passato nella schiera di coloro che credono di non credere, Gesù non è sparito dalla mia vita, ha continuato ad esistere come uomo davvero speciale, ha continuato a essere presente in me e a esercitare il suo fascino.

Secondo Andreoli tre sono gli atteggiamenti rispetto a Gesù:
- quello dei credenti, che hanno esperienza personale diretta di lui e ne possono parlare (Paolo di Tarso, Manzoni ad es. illuminati di colpo)
- quello dei non credenti, che non hanno tale esperienza e per credere non basta volerlo, bisogna fare esperienza
- gli atei, che negano esista un problema della fede. Per loro i credenti sono degli illusi.
Vittorino ha rispetto per chi crede e, non avendo oggi l'esperienza di Gesù, ne ha voluto parlare come uomo, e come uomo Gesù per lui rappresenta l'uomo ideale e si immagina di incontrarlo. Gesù che va da lui, nel suo studio, tace, si guarda attorno e non risponde all'invito che gli fa di sedersi e di parlare, come farebbe un qualunque paziente. Il silenzio di Gesù lo imbarazza prima, poi lo fa sentire inutile come psichiatra. Anzi si sente interrogato lui dallo sguardo di Gesù e alla fine si ritrova seduto lui, Vittorino, sulla sedia del paziente e Gesù su quella del medico.
Nella metà dell'800 molti psichiatri hanno fatto una diagnosi su Gesù, che è risultato un paranoico religioso.
Paranoico è uno che ha di sé una grande idea e vede la realtà come qualcosa da dominare.
Per Vittorino Gesù non ha nulla di paranoico, non si vanta di aver fatto miracoli, dice che le cose belle le fa la fede e non lui, dice "tu puoi" e non "io faccio". Gesù va a Nazareth e tutti lo vedono come il semplice figlio di un falegname e di Maria, non hanno fede in lui e lui allora non riesce a far miracoli di fronte alla mancanza di fede. Gesù si mostra ed è fragile, ha paura, si sente abbandonato, ha sete.
Gesù per Vittorino è sano di mente, non è normale (nessuno vorrebbe essere definito normale, in realtà), è strano, ma nel senso di straordinario, eccezionale.
Gesù rifiuta il potere perché crede che l'unica forza che può far vivere bene è l'amore, verso tutti, compresi nemici e peccatori, e poi il perdono, che è molto più bello della giustizia. Gesù sa perdonare anche senza sapere il peccato di chi perdona. Non c'è in lui giudizio. Non ama il potere, che invece oggi è la vera malattia sociale.
Gesù ascolta tutti, soprattutto chi soffre. 
Questo fa anche lo psichiatra che vien toccato dal dolore e dalla follia. Vittorino è molto colpito dalla sofferenza, anche da quella di coloro che fanno violenza. Se si vuol capire la violenza, prima bisogna capire cos'è la paura. La condizione umana è di sofferenza, il male ci travolge nel quotidiano. L'uomo attaccato nel vuoto a un filo di ragno, dice Ungaretti.
La sofferenza è un mistero, però Vittorino sa cos'è la GIOIA. Che non è la felicità, che si spegne un attimo dopo che l'occasione è passata. La gioia non è legata a un fatto passeggero e neanche al singolo individuo, ma è qualcosa di corale e quindi di perdurante.
Vittorino vorrebbe incontrare Gesù non mentre ha paura, non in un momento di dolore, ma quando è nella gioia. Perché nel dolore si è deboli. La paura può rendere amico anche un nemico. Molte esperienze di conversione o di entrata nella fede sono legate al dolore (pensiamo a Lourdes) e la chiesa si è servita tante volte del dolore senza tener conto di Gesù.
Infine, secondo Vittorino, gli altri papi forse possono somigliare di più a Dio, il papa di oggi somiglia di certo a Gesù.

lunedì 11 novembre 2013

Da un'altra carne, Diego de Silva

Di nuovo, stasera, c'è Luigi. Anzi, ci aspetta come un guardiano del granaio all'ingresso. Marco non è solo, come uomo. Poi le donne, Maria, B.Lavinia, Sara, Sarah, Alessandra, Elke, Patrizia B. ed io.
Da un'altra carne è la storia della signora Ester, almeno su questo non hanno dubbi gli Itineranti, è lei la protagonista. Ester ha due figli grandi che vivono con lei, sembrano una famiglia normale. Ma la normalità perde l'equilibrio quando uno dei figli porta a casa un bambino. E quai tutte le domande su questo bambino, ma anche altre nella storia, restano senza risposte.
Non si tratta di dimenticanze dell'autore. Ci mostra in più occasioni che è capace di anticipare antefatti preordinati perfettamente ai fatti, vedete ad esempio la scena della benzina. Poi, per il resto sembra più interessato a consegnare al lettore semplicemente dei personaggi col loro travaglio interiore, in particolare quello della signora Ester, senza curarsi delle risposte disattese. E se il suo intento voleva essere quello di mettere in guardia che accadono cose così, esistono cose così, be' io della signora Ester ho avuto proprio paura.
Maria concorda con la realtà data, consegnata, senza urgenza del prima e del dopo. La fa arrabbiare la signora Ester che non ha un comportamento normale quando il figlio le porta il bambino. Poi è succube di questo figlio capace di ributtarle addosso tutte le colpe in ragione di una colpa più grande, di una colpa antica. Come se dovesse qualcosa a questo figlio. Come se questo figlio, davanti al suo amore, avesse sempre tentato la fuga. Infine arriva il bambino, Salvino, a frapporsi in quell'amore già difficile. Salvino è però la creatura salvifica del dramma.
Si resta a bocca asciutta però. Cosa voleva dirci? si chiede Sarah. E il bambino chi è? Fa eco Elke. A Luigi è parso che la storia manchi del pezzo più importante, quello che gli avrebbe dato la visione generale del libro. Gli avrebbe fatto piacere trovare una postilla, dopo. O aver avuto dei confini entro i quali avrebbe potuto muoversi più disinvoltamente come lettore. Per rispondere a una delle tante domande si è immaginato un incidente in cui hanno perso la vita i genitori del bambino e Guido non ha potuto fare a meno di portarselo a casa.
Quasi tutti però pensiamo che il bambino sia il figlio di Guido. Non si sa con chi e dove lo tenesse, ma siamo quasi certi sia suo figlio.
Marco ha pensato ad un viaggio immaginario, quello di Ester su in montagna. Il bambino aveva sballato gli equilibri della casa, seppure inconsistenti, e lei è uscita di testa. L'immagine a scatti del bambino che scompare gli ha fatto pensare così. Poi anche i tempi. In effetti sui tempi di rientro (alle due e un quarto il bambino era già a casa) abbiamo ragionato tutti. A meno che, continua Marco, il bambino non sia stato riportato a casa dai fidanzati cui la signora Ester aveva chiesto informazioni e allora si deve ricredere sul fatto che il bambino realmente fosse con lei. Eccola una risposta, forse.
Sara dà una buona interpretazione. Tutta la storia è una metafora. E' la paura che abbiamo di fronte allo straniero e al nuovo. Salvino non ha storia perché c'è solo per salvare Ester.
Ma si salva? Chiede Patrizia. E prima che Maria le risponda le chiediamo se l'ha finito, il libro. Ridiamo. Poi Maria dice che sì, il bambino è accolto e lei è salva. Ma è salva solo dopo aver toccato la sua miseria, dopo che le è stata condonata la sua miseria.
Elke ha avuto il dubbio che la signora Ester fosse malata, poi ascoltandoci l'ha definitivamente fugato. Sarà malata forse, dentro, ma ciò che le scatena quella cosa terribile è la figuraccia che ha fatto con il vicino e mentre la compiva non ne capiva la gravità.
Già. Qualcosa di simile l'abbiamo trovato anche in Atti Mancati, che per coprire una colpa leggera se ne commette una grave.
Alessandra e Lavinia ancora lamentano le troppe risposte mancate.
Lucio chi è? Il titolo perché è Da un'altra carne? Diego, siamo qui, parlaci.
Sembrava che il libro non fosse piaciuto all'inizio, tutti abbiamo fatto il confronto con Mancarsi. Ma, messo il cuore in pace sulle domande irrisolte, il libro invece è piaciuto, ha generato una bella discussione e ci ha regalato brani di poesia pura. Vedi quello breve sulla felicità, quando si è esattamente dove si vuole essere; quello sulle separazioni che vivono di lontananze e sono vecchiaie accompagnate per mano; sul passato pieno di dispiaceri che ci ingannano con la dolcezza; cose così. È chiaro che se uno vuole leggere in leggerezza, non è questo il libro.

domenica 10 novembre 2013

Quel libro, quella volta...con Grazia Verasani

Seguendo Grazia la si scopre sempre più donna di grande spessore, di sostanza, che sa dire cose toste con flemma sorridente. Oggi, alla libreria coop Zanichelli di Bologna, ha raccontato di quel libro, quella volta...  
Il libro prescelto è Il viaggio al termine della notte di Céline, uscito nel '32. Lo ha presentato con una ricchezza di riflessioni, osservazioni, puntualizzazioni da far venire voglia di leggerlo.
Il romanzo di Cèline è una sinfonia emotiva, quasi uno spartito musicale. Meglio, una rapsodia, cioè un componimento libero da ogni schema. La punteggiatura ricca di esclamativi e di puntini di sospensione è anch'essa una punteggiatura musicale. Céline diceva sempre che il primo uomo per prima cosa non parlò, ma cantò ( mugolii, versi per spiegarsi, non parole, quindi era musica). Le origini del linguaggio allora furono musicali.
Il protagonista, Céline, non è protagonista, ma testimone. Così la descrizione appare distaccata, mai giudicante, mai cinica. Noi non siamo i giudici, siamo i condannati.
Libro tenero e poetico, anche se apocalittico.
Nel romanzo c'è odio per la guerra e tanto amore per l'altro, senso di appartenenza all'altro.
Sceglie i perdenti, Céline, perché Se non si può essere felici, si può cercare di essere meno infelici. 
Il senso della vita è smarcarsi dalla finzione.
Secondo Grazia è un autore inimitabile. Leggerlo oggi è come leggere un classico. E' ritrovare la bellezza di uno stile non c'è più. Oggi vive la semplificazione del linguaggio, non si vuol fare fatica, si vuole leggerezza che diventa superficialità, il mercato che tende a non farci pensare e vuole acchiappare da tutte le parti, ogni lettore. Chi ama pensare invece, scavare, deve trovare libri che lo permettono e forse, per questo, bisogna tornare al passato.
 Céline ha attraversato una guerra vera, noi siamo invece in una guerra fredda. Viviamo in una realtà menzognera, sappiamo che dobbiamo sospettare di ogni notizia ci venga data. Viviamo in uno stato di confusione, non sappiamo più cos'è sinistra e destra, cos'è bene e male. Siamo statici, abbiam perso la voglia di movimento.  
Grazia non fa mistero di scritti antisemitici di questo autore, ma invita il lettore a leggere il romanzo per quello che è, un libro catartico rispetto alla morte, un libro che mette le mani nel corpo, nelle viscere, in quelle dei feriti in guerra. Nella notte infinita, le mette.
Ringrazio Maria per avermi raccontato di Grazia.
 

Storia di Irene, Erri de Luca

E' la storia di Irene, appunto, una ragazza che ha gli occhi tondi dei pesci. E' stata salvata dai delfini e con loro vive di notte, di giorno invece sulla terraferma di un'isola greca. Consegna la sua storia a un narratore, Erri de Luca che nel libro interpreta se stesso.
 
Peccato. E' un libro di faticosa lettura, seppure breve e tralasciando la storia inverosimile. L'ho pensato come un inno al mare, a questa immensità sorella maggiore del grembo materno. Il pezzo sul Mediterraneo buttadentro è unico e bellissimo, ma poi bisogna continuamente tornare indietro a rileggere.
Oppure ad una favola, ho pensato, vista la zoomorfizzazione della ragazza. Però manca di avvenimenti semplici e veloci, non c'è una morale, il narratore non conosce la fine, lo dice. Sì, ci sono frasi brevi, fulminanti, ma che non restano per quanto sono state limate.
 
In appendice altre due brevi storie, la traversata di cinque scampati alle rappresaglie naziste e il ricordo di un vecchio davanti al mare.
 
Peccato davvero. Pare che l'autore abbia voluto sentirsi scrivere invece che farsi leggere.
 
 
 

domenica 3 novembre 2013

E i bambini osservano muti di Giuseppe Marotta


 
 
 
 
Sabato 30 novembre 2013
ore 16.30
presso la sede Acli di via Lame 116 a Bologna

Itinerari di Lettura 
incontra 

Giuseppe Marotta
con il suo romanzo d'esordio 
E i bambini osservano muti
 

Una storia di mafia raccontata da Remì, un bambino di dieci anni.

venerdì 1 novembre 2013

La misura di tutte le cose

Anni fa, almeno dieci, ho letto un interessante libro sulla avventurosa storia del metro. Oggi la cronaca politica me l'ha rievocato. E' un gioco mentale, quello di dare titoli di libri alle persone o alle cose che accadono. La misura di tutte le cose. E non sto a tediarvi con la vicenda del nostro Guardasigilli. Ma ho trovato interessante, addirittura fulminante, tornare a sfogliare il libro e trovarvi delle associazioni tra unità di misura e giustizia che, evidentemente, la memoria tratteneva, a mia insaputa. E' pur vero che il simbolo della giustizia è una bilancia.
 
Per essere operative le misure devono essere assunti condivisi.
Nell'Antico Testamento si trova l'ammonimento "Non commettere ingiustizie nei giudizi, nei pesi o nelle misure di capacità. Avrete bilance giuste, pesi giusti, ephah giusto, hin giusto".
Le nostre unità di misura definiscono l'essenza e il valore dell'essere umano.
 
Vi racconto brevemente di questo interessante libro.
Nel XVIII secolo le unità di misura differivano non solo da nazione a nazione, ma anche al loro interno. Questa diversità ostacolava e impediva una razionale amministrazione dello Stato e dunque, almeno per le unità di misura, il buon senso reclamò un sistema coerente.
Per sette anni due astronomi viaggiarono lungo il meridiano terrestre per ottenere dalla superfice curva del nostro pianeta un'unica cosa: il metro. Una impresa straordinariamente delicata mentre si era in Francia e il mondo girava attorno alla ghigliottina. Il frutto delle loro fatiche fu conservato in una barra di platino puro lunga un metro, appunto. Ma uno dei due astronomi aveva commesso un errore nella misurazione. Soprattutto si era accorto dell'errore. Morì nel tentativo di correggerlo, quasi sull'orlo della follia. Il risultato è che il metro è in errore. E il significato della sua storia è che le persone lottano per la perfezione, poi in-evitabilmente vengono a patti con le imperfezioni. Così, alla fine, è l'uomo la misura di tutte le cose.  
 
La misura di tutte le cose di Ken Alder
 
 
 

incontro di novembre

Lunedì, 11 novembre

Discutiamo il secondo libro prescelto di Diego de Silva, Da un'altra carne.

Alle 19.30 in via Lame 116.

Il bordo vertiginoso delle cose, Gianrico Carofiglio

E' bello malinconico l'ultimo libro di Gianrico. Te ne accorgi subito, appena Enrico prende un treno per tornare a Bari, dove è cresciuto, ha frequentato il liceo, si è innamorato la prima volta e ci ha lasciato un fratello che non vede da anni.
Un uomo malinconico parte in treno infatti, e si perde a guardare fuori dal finestrino.

Il Caso ha deciso il ritorno, e non solo quello. Una notizia sul giornale. Enrico si lascia guidare. Gianrico poi guida il lettore. Senza presunzione, neppure supponenza, gli prende la mano, gliela stringe di più sul bordo vertiginoso, e gliela lascia solo dopo l'ultima pagina.

La storia è tra presente e passato, narrata con la maestria della prima e della seconda persona. Viene facile trovarvi una notte a Bari o il passato di ( è ) una terra straniera. Ma qui, sul bordo pure, c'è Celeste. Creatura fantastica che fa venire voglia di riprendere in mano presocratici e sofisti, e arrabbiarsi della manomissione del termine sofisma. E c'è Stefania, che in poche battute fa riflettere sulla responsabilità della vita.

Un bel tributo a cinque grandi incipit della letteratura, a cinque donne rivoluzionarie, a Linus e a qualche opera dimenticata che un attento lettore andrà sicuramente a rinvangare. Forse anche a Simenon con quella cosa della colazione. Tutto perfettamente incastrato.

Poi, quando il romanzo finisce, viene voglia di abbracciarlo, Enrico. O Gianrico.
 

domenica 20 ottobre 2013

L'immensità del mare è sorella maggiore del grembo materno (Erri de Luca)

Per quelli che l'attraversano ammucchiati e in piedi sopra imbarchi d'azzardo, il Mediterraneo è un buttadentro.
Al largo d'estate s'incrociano zattere e velieri, i più opposti destini.
La grazia elegante, indifferente di una vela gonfia e pochi passeggeri a bordo, sfiora la scialuppa degli insaccati.
Non risponde al saluto e all'aiuto. La prua affilata apre le onde a riccioli di burro.
Dalla scialuppa la guardano sfilare senza potersi spiegare perché, inclinata su un fianco, non si rovescia, affonda, come succede a loro.
Qualcuno d loro sorride a vedere l'immagine della fortuna. Qualcuno ci spera, di trovare un posto in un mondo così.
Qualcuno di loro dispera di un mondo così.

                                                   (da Storia di Irene, Erri de Luca)

mercoledì 16 ottobre 2013

Il mio Aleph

La stanchezza per non aver dormito mi abbatteva, ma andai lo stesso. C'erano buone ragioni per singhiozzare ancora, brevemente, di felicità. Al principio lo pensai cautamente, quasi con indifferenza. Poi sempre più con insistenza, e disperazione. Sentii freddo. L'evidente somatica solitudine mi riempiva di freddo. Sentii che non avrei resistito. Mi affacciai nella città, subito rientrai. Il freddo era invincibile, ma pure volontario. E dentro a quegl'artifici mortali dov'ero rientrata trovai rimedio,a l freddo e alla solitudine. Fu tutt'uno. Prima di un parallelepipedo rotante gigante avvenne un fatto incredibile. Subito mi stupii evidentemente della modernità della costruzione, e risi. Poi, più ancora, mi stupii dell'antichità del mio sentimento, e sorrisi. Abbracciai la città abbracciata al cielo. Guardai i palazzi che guardavano per primi le prime stelle.  Così scesi alla cieca per strada e nei labirinti bui, veloci, affollati, terribili per gli occhi e per chi ha paura. Una benedizione per chi vuole rubare un bacio. Saranno stati dei pazzi quelli che li hanno costruiti, pensai. Saranno tutti morti, che peccato. Avranno cantato, da qualche parte sopra l'arcobaleno. Singhiozzai.

lunedì 7 ottobre 2013

Mancarsi, Diego de Silva

Un libro di poche pagine Mancarsi, ma denso denso denso da voler sottolineare tutto. Eppure a Marco ha fatto schifo e non capisce perché l'abbiano osannato ovunque. Guiliana non sopporta i personaggi che non parlano, non avrà letto proprio in questo libro che in amore si tace più di quanto si dica. Maria invece, dopo averlo letto, ha voluto leggere tutti gli altri libri dell'autore.
Mancarsi è il racconto di due persone che sarebbero perfette assieme, ma non lo sanno. O non lo sanno ancora. L'una se n'è andata da un matrimonio, l'altro è stato lasciato solo dalla morte. Forse, alla fine, si incontreranno.
Oltre a Marco, Giuliana e Maria, ci sono questa sera Sarah, Luigi e Giuseppe, Rosanna, Alessandra, Matteo ed io.
Maria è sconvolta dall'esordio di Marco e Giuliana, e vorrebbe sapere cosa ci cerca dunque in un libro. Giuliana semplicemente vorrebbe essere trasportata in un altro mondo. Lei di vite parallele vuole fare volentieri a meno. Poi, anche le parentesi l'hanno infastidita. É vero, nel libro ce ne sono troppe. Stilisticamente sono anche poco aggraziate e grammaticalmente sarebbero quelle frasi di cui poter fare a meno. Allora? Allora secondo Rosanna la punteggiatura è il respiro del libro. Sono una intimità col lettore, come a significare: a te che leggi te le posso dire queste cose.
A Sara è piaciuto molto questo libro, e le è dispiaciuto sia finito presto perché l'autore aveva molte cose intelligenti da dire. Pure ad Elke è piaciuto molto, ad Alessandra alla seconda lettura. Sarah invece non ha capito perché si stanno cercando proprio loro due che neanche lo sanno. Per Rosanna è nel titolo la motivazione. Che non è il mancarsi del non incontrarsi, bensì qualcosa che proprio manca e a cui si è giunti come liberazione. Per Luigi Mancarsi ha solo un significato: lei che se ne va, amen. Anche perché, dice ancora Marco, lui sarebbe rimasto. È inutile che e le raccontiamo, si fa fatica ad essere spontanei, non lo saremo mai. Doppio amen. Vuoi quella verità? Chiede Maria a Luigi. Ti basterebbe? Incalza. Per lei non è quella la verità, e il libro non è 'letterario' come ha insinuato qualcuno. È tutto reale. Già. Tutto reale, conferma Rosanna. Poi, non vuole insegnare niente. Solo, si racconta. Ma se deve trovargli una stonatura, eccola. L'autore sostiene che ci si innamora quando si vede il vero. Non è sempre vero.

mercoledì 11 settembre 2013

Accordi minori, Grazia Verasani con Giampiero Rigosi

Alla fine non è piovuto. E Stasera parlo io, dove a parlare sono stati Grazia e Giampiero, si è svolta in strada.
Il libro da conoscere è Accordi Minori di Grazia Verasani.
E' la vita ad essere sbagliata, la morte se ne frega. Emilio Clementi ha letto un brano del libro con arte e maestria. L'arte, appunto.
L'arte, gli artisti raccontati nei monologhi del libro sono tutti accomunati da una sorte tragica. Janis Joplin, Kurt Cobain, Amy Winehouse, Chet Baker, ma anche Dalida, Tenco, Bindi e altri. Sono tutti scesi nel territorio del diavolo e Grazia è andata loro dietro con la musica delle sue parole. Così esordisce Giampiero Rigosi nella presentazione del libro.
Lei ringrazia e spiega che gli artisti raccontati sono sì di generi diversi, ma tutti con la caratteristica dell'accordo minore in senso esistenziale. Una vita spesa a esprimere la loro vocazione più grande, ma senza vivere pienamente. E' lì che c'è qualcosa di infernale. Nella fatica di vivere al momento del successo, nel sacrificio del sé, nel genio, in senso faustiano, che ti prende la vita, ti deruba.
Grazia racconta d'essersi fatta un regalo scrivendo questo libro, in ragione della sua passione per la musica. E' vero. L'ho ascoltata in Sotto un cielo blu diluvio qualche anno fa, a Teatri di Vita. Passionale è passionale. Anche malinconica, ma soprattutto brava.  
Brava è pure Francesca Mazza quando recita i monologhi di Edith Piaf e Mia Martini.
Giampiero provoca Grazia chiedendole se gli artisti diventano artisti perché la fragilità ce l'hanno già dentro, e se lei, potesse scegliere, scambierebbe il suo dono con la felicità. Perché è come se il dono si portasse dietro una maledizione. Non si può, risponde Grazia. Non si può rinunciare. La felicità, forse, non produce un'arte con una bellezza profonda. Accidenti, penso.

incontro di ottobre

Lunedì 7 ottobre, ore 19.30
 
L'autore prescelto è Diego De Silva.
Eccezionalmente discuteremo due titoli nella stessa serata, Mancarsi.
 
 

Atti mancati di Matteo Marchesini



Mercoledì 18 settembre 2013
ore 19.30
presso la sede Acli di via Lame 116 a Bologna

Itinerari di Lettura 
incontra 

Matteo Marchesini
con il suo romanzo d'esordio 
Atti Mancati

Una parabola sul tempo trascorso ostinatamente a occhi chiusi e su quello vissuto a occhi spalancati.

lunedì 9 settembre 2013

E i bambini osservano muti

Remì è un bambino di dieci anni. Suo nonno è un boss della camorra, sua nonna è serva fedele del boss. Il padre di Remì una mezzacartuccia, non ce l'ha la cazzimma per essere camorrista. La madre prima innamorata, poi ribelle. Zio Geggè, fratello del boss, camorrista pure lui, ma con cuore si potrebbe dire, è lui che salva la madre di Remì.
Di Remì, della sua nobiltà d'animo, e delle persone intorno a lui parliamo stasera con Elke, Maria, Sarah, Lavinia, Giuliana e Sara, due nuove arrivate. Parte la sesta edizione degli Itinerari.
E' un libro interessante questo, e forte. A raccontare una storia di mafia è un bambino, Remì. E nella storia, oltre alle cose grandi, mafiose appunte e osservate con la semplicità dei dieci anni, ci va anche il micro pugno magico, forse ancora più grande per la salvezza del piccolo eroe.
Remì l'abbiamo ammirato tutti e abbiamo tifato per lui, gli siamo stati accanto. Non siamo riusciti neppure a condannarlo alla fine, ci ha sconvolto il suo amore e il suo dolore per la mamma. Su Antonio Cafuro, il padre di Remì, siamo divisi. Giuliana non lo ritiene degno. Per Sara resta seduto in poltrona, come lo stesso bambino racconta. Maria lo difende. Non accetta che sia detto di lui vigliacco, lui è degno. Lui decide, pur in quella famiglia, di non fare nulla che lo possa definire mafioso. Non è dentro il sistema, invece Giovanna, sua moglie, si che c'era. E' un uomo distrutto quando sua moglie fugge, ma la ama e continua ad amarla, mentre sta decidendo se ribellarsi al padre boss. L'unica sua colpa è che l'ha picchiata troppo, sua moglie, per compiacere il padre boss. Io pure penso così di Antonio, e sono fermamente convinta che l'avrebbe ammazzato lui il boss, è stato solo anticipato. Per Giovanna ho provato delusione quando ho scoperto quanto era dentro alla mafia. Giuliana invece di lei crede che è cresciuta con gli stessi occhi del bambino. In più si è fatta rispettare. Non sono critica con Antonio quando, come s'interroga Sara, non abbandona quella sua città, quel luogo di mafia. Ci sono alternative, penso, oltre all'andarsene e Antonio ci prova e lo dimostra scegliendo di restare. I luoghi sono amati da chi li abita, non sarebbe giusto abbandonarli perché qualcun altro ve ne fa scempio. Ne deriva una ulteriore riflessione, dice Maria. L'attrazione per le cose che ci fanno orrore. Per i luoghi, come per le persone appunto. Vedi Remì. Odia il nonno, ma ne è attratto. E' un bambino corruttibile, attratto da una violenza disumana. Infatti secondo Sarah, senza la fuga della mamma, Remì sarebbe diventato di sicuro un mafioso. Sarebbe andato ad allungare la lista dei personaggi negativi, aggiunge Giuliana. Negativo è zio Geggè, anzi schifoso secondo Sarah. Tipico mafioso secondo Patrizia B., se ne fotte del divieto di tornare nella sua città e ha la strafottenza di chiamare un locale La camorra. Mentre Antonio neppure in un locale chiamato camorra vuole mettere piede, è questa la sua forza, la sua positività, io lo difendo. Don Furore, il boss, spregevole per tutti.
Elke ancora non digerisce il finale di questa storia, non riesce a immaginare che le regole mafiose siano davvero così. Purtroppo sì. É restata incantata, come Patrizia e tutti, dal racconto con errori grammaticali apposta, coi particolari della mafiosità, con questi pensieri bambini in mezzo a pensieri adulti. Anche se, alla fine, non c'è alcun pensiero. E' deciso e basta quello che si deve fare. Non c'è più tempo per pensare. Poi però il bambino se la fa addosso, chiosa Lavinia. Ma non quando è stato necessario, la corregge Maria.
Ci sono passi di questo libro d'una bellezza sconvolgente, quello del sangue del boss, ad esempio, che, complice la pioggia battente, impregna la città di lui ancora dopo morto ed entra in tutti gli scantinati, nei bassi, nell'ignoranza di una città. Perché sugli ignoranti, nel senso originale della parola, la criminalità ha il potere e lo agisce. Ci insegnano così le persone che la combattono in prima linea.
Stupendo il pensiero sul perdono. Così bello che Patrizia B. avrebbe voluto che Antonio lo avesse proprio pensato lui per riscattarsi da uomo, per riscattare tutti gli uomini. Invece è di Giovanna, lui lo riferisce solo, ma non diminuisce la bellezza.
Tenera la descrizione del bambino che si addormenta sulle parole del padre alla madre.
Senza parole l'atto finale della storia, ma non c'era altra scelta. Ad un certo punto il male bisogna interromperlo. Chi ha più coraggio deve farlo.



domenica 1 settembre 2013

sesta edizione

Lunedì 9 settembre parte la sesta edizione degli Itinerari di Lettura.
Alle 19.30, in via Lame 116.
Discussione de E i bambini osservano muti di Giuseppe Marotta.

Lui è tornato di Timur Vermes

Lui è tornato. Hitler, Adolf. 
Un libro paradossale, preferisco definirlo così anziché grottesco come da più parti si legge. Racconta il ritorno del Führer, cui è restata la stessa ambizione: l'egemonia tedesca sul mondo. Per un gioco di ambigue equivocità nel libro Hitler diventa un'icona mediatica e, mentre il mondo lo scambia per un comico, lui finisce per rifondare il Partito Nazista.

Ho letto questo libro sull'onda dell'emotività di un mio recente viaggio ad Auschwitz - Birkenau. Mi ha infastidito molto, e sin dalle prime pagine, il fatto che si possa provare simpatia per Hitler, perché questo avviene. Il libro è esilarante, l'autore è molto compiaciuto di ciò, sostiene infatti che vi sia esitazione a ridere sul nazismo, che il non riderne sia parte di un rituale. Io mi sono sentita stranita. Volevo abbandonare la lettura, poi ho deciso di proseguire per vederne la fine. Non c'è alcuna redenzione, del resto anche in Lasciami andare madre la guardiana del campo di Birkenau non mostra alcun segno di pentimento. Anzi, il finale del libro di Vermes è scioccante e, poco importa se ve lo svelo, termina con uno slogan "Non era tutto sbagliato". 
Le recensioni che ho trovato su questo libro sono tutte buone. Mi sento ancora più stranita, forse non ho colto il messaggio, che pare di riflessione e di non autoassoluzione. Concordo sul fatto che sia un'ottima scrittura, appropriata, efficace nei dialoghi. Concordo sulla preparazione dello scrittore, sebbene mi infastidisca il sovente compiacimento che si rinviene nelle informazioni date. Concordo anche sulla riflessione, sto riflettendo. Sulla non autoassoluzione?  
"In Germania sappiamo tutto sul nazismo e l'Olocausto, ma su di lui tendiamo al rituale dell'anatema. Lui era il pazzo criminale, oppure era il folle sciocco, lui fu responsabile di tutto. Tendenza inconscia all'autoassoluzione da colpe collettive, a voler dimenticare che per prendere il potere, instaurare una tirannide, avviare il genocidio su base industriale, scatenare una guerra mondiale, è indispensabile un forte appoggio del Paese". Rifletto sul fatto che, laddove vi siano simpatie latenti,  con una simile scrittura possano essere legittimamente alimentate. Rifletto sul fatto che l'autore riesca a dire che se lui tornasse non lo riconosceremmo e ancora una volta non lo prenderemmo sul serio. Sarebbe solo un comico. Eppure, lo dice lui stesso, il personaggio, la questione ebrei non è divertente. I campi con le camere a gas e i forni sono ancora lì, visibili. Ci sono ancora i sopravvissuti che ce le raccontano queste cose. In misura minore non è neppure divertente la considerazione delle masse, sedotte da un oratore che ha posizioni aberranti, ma almeno le ha. Non è divertente infine la gara dei politicanti per accaparrarsi nelle proprie fila l'Hitler ritornato. Ma chi ci governa? Possibile che nessun politico, che si sia riconosciuto in quei personaggi, abbia preso le distanze da un racconto simile e gridato che no, non lo vorrebbero mai nei loro partiti? E noi chi siamo? Eccola la mia amara riflessione.  

Un ultimo appunto. Ho trovato elogi anche sulla copertina del libro. Bianca con la sola sagoma della scriminatura dei capelli di lui, di Hitler. I caratteri del titolo costituiscono i baffetti. Ma qui mostrerò la foto di un posto che mi ha toccato profondamente.   

camera a gas ad Auschwitz


martedì 9 luglio 2013

fine quinta edizione, tempo di bilanci

Il due luglio scorso si è conclusa la quinta edizione.
Bellissima serata, la diversità che si trova.

Da settembre a luglio abbiamo letto undici libri e incontrato cinque autori. 
Per questa edizione l'itinerario prescelto è stato degli esordienti. Un itinerario rischioso, ma è andata bene, a parte un paio di eccezioni. Poi, a tratti, un po' rivoluzionari o coscientemente sbadati ( ché magari qualche libro proprio esordio non era ), l'itinerario, l'abbiamo disatteso. Ci piace fare così.

Eccoli i libri della quinta edizione:

Miriam e la geometria di Luisa Grosso
La valle delle donne lupo di Laura Pariani
Nient'altro che amare di Amneris di Cesare
L'eredità dei corpi di Marco Porru
Borgo Propizio di Loredana Limone
Il tempo tagliato di Silvia Longo
Il tempo è un dio breve di Mariapia Veladiano
Il rivoluzionario di Valerio Varesi
Le difettose di Eleonora Mazzoni
Atti mancati di Matteo Marchesini

Ed ecco gli autori che sono venuti ad incontrarci:
Luisa Grosso
Amneris di Cesare
Mariapia Veladiano
Silvia Longo 
Valerio Varesi

A metà settembre incontreremo Matteo Marchesini. 

Ed ora i compiti per l'estate.
E i bambini osservano muti di Giuseppe Marotta

Questa è l'edizione più speciale degli Itinerari di lettura. Ci è nato Mattia. 

martedì 2 luglio 2013

Atti Mancati, Matteo Marchesini

E' l'ultimo incontro di questa edizione, la quinta. Quella che ha visto la lettura di autori esordienti. Una scelta coraggiosa e rischiosa la nostra, ma non è andata male, a parte una o due eccezioni. Atti Mancati è un buon libro, con una scrittura brillante ed elegante. Forse appena un po' di autocompiacimento, ma è perdonabile. La storia è una storia d'amore finita. Una storia dove tutto finalmente reclama d'esser detto. C'è una malattia terribile dentro dove tutte le verità perdono valore, eppure, appunto, devono essere dette. Perché peggiore è la malattia dell'anima rispetto a quella del corpo. E' straordinario il percorso per arrivare alla verità, è coraggiosa Lucia, mi piace. Lei le cose le fa capitare. Addirittura una reazione estrema del suo organismo per catturarmi, pensa Marco il protagonista e io con lui. Non la trovo egoista, è l'ultimo atto d'amore condurlo alla verità. Se fosse andata a morire da sola allora non sarebbe restato davvero nulla. Eccolo il mio giudizio sul racconto. 
Ma qui ci sono Marco, il nostro, e Patrizia, Alessandra, Elke, B.Lavinia, Maria e Rosanna, Luisa, Lorenzo e Mattia, la nostra mascotte. 
Sarah concorda sulla malattia dello spirito che è terribile. Marco ha una vita pseudo appagante, ma non si sposterà d'una virgola fino a quando non avrà chiuso il cerchio. E questa malattia dello spirito è ben rappresentata da Davide, il fratello matto o che finge d'essere matto.
Maria è arrabbiata con Lucia. Doveva perdonarsi. Il libro inizialmente non l'aveva predisposta, soprattutto il linguaggio forbito può allontanare il lettore. Ringrazia chi glielo ha prestato perché, dopo le prime venti pagine, le è parso stupendo. Stupenda questa onestà nel raccontare il disagio di Marco di fronte a Lucia. Ed è per questo che lei è stata più dalla parte di lui. Lei l'ha trovata irritante nella pianificazione di questa via crucis. Bellissime, e ancora oneste, le pagine sul sesso presente e nel ricordo del passato.  
Rosanna, da brava analista, riconosce il percorso, riconosce le sedute di Marco con Lucia. Un percorso per costruire delle parole condivise. Al contrario di altri, per lei le prime pagine sono importanti perché la letteratura influenza il pensiero. Il letterato cosa deve fare? Il povero Marco cosa poteva fare? E' anche ironico il romanzo, sostiene. Perché chi scrive ha l'idea di lasciare per gli altri e invece si scrive perché gli altri vedano come sei veramente. Lucia, nel suo desiderio d'essere accompagnata a morire, non è altro che il lato ombra dell'altro, di Marco. Lui che non consegna il manoscritto dell'amico al maestro perché temeva che si riconoscesse subito che l'amico era buono di nascita, non di copertura, non da letterato. Il percorso è un percorso di cura reciproca. Ma non si può fare con tutti. Lucia e Marco avevano testa per farlo.  
Marco, il nostro, ha provato irritazione inizialmente. L'ha trovato cerebrale, ma d'una cerebralità funzionale alla storia. Il protagonista sembra volerci dire che ognuno di noi sta nel proprio mondo e le relazioni diventano dei riempitivi. Che la vita andrebbe vissuta in maniere diversa. Viviamo tutti in funzione di un dopo, difficilmente si vive legati al presente. 
Patrizia pure, come Maria, ha trovato il racconto molto sincero. Ed è certa che, dopo Lucia, Marco cercherà di fare meglio. A Lucia è costato tornare con la malattia, lo ha fatto per amore. Perché scopre che non è cambiato, e vuole cambiarlo. Scopre che è rimasto il bambino che crede di non essere visto. 
A B. Lavinia il libro l'ha annoiata quasi sino a pagina ottanta. 
Alessandra l'ha trovato pesante nella scrittura, però geniale il trio, l'equilibrio. E sostiene che Lucia torni per sé, perché sta male, non per Marco. 
Elke dubbiosa sul perché se ne fosse andata Lucia. 
Ci soffermiamo tutti a ragionare se sia un racconto autobiografico, se il punto cruciale del romanzo sia la mancata consegna del manoscritto dell'amico, sulla motivazione bellissima del perché non si finisca un libro, ché non tutti i libri sono fatti per essere finiti, sul padre di Lucia che non accettava Marco, sul fatto che di un amore resta che ci si possa scambiare la vita, alla fine.

sabato 15 giugno 2013

incrocio di scie in tangenziale


Ne L'amore non si dice l'innamorato scriveva lettere appassionate alla desiderata millantando romanticismo in tutto ciò che gli capitasse a tiro. Solo per avere una ragione per scriverle e parlarle del suo amore senza poterle parlare d'amore. Un bel libro, divertente. Tra i romanticismi, oltre ai kiwi, alle patate, alle banane, anche un tramonto in tangenziale. E questo, a onor del vero, può essere credibile. Come un incrocio di scie in tangenziale. Le mie. In sottofondo un classico del romanticismo disperato Questo piccolo grande amore, ché la radio non la snobbo ancora come la televisione, e anzi canto sulle canzoni che trovo e riconosco.

Un pensiero anaforico del piccolo grande amore, poi le scie.

Un amore piccolo fisicamente.

Un amore piccolo anagraficamente.

Un amore piccolo insignificante.

Mi fermo qui. Le scie, vedo, sono solo tre.

venerdì 14 giugno 2013

delitti esemplari

Russava. Gli tenne il naso chiuso per troppo tempo.

La cacciò di casa buttandola dal sesto piano. Voleva liberarsene in fretta.

                                                                                     (Vita Marinelli)








 
suggerimento di lettura

Delitti esemplari di Max Aub

lunedì 10 giugno 2013

Le difettose, Eleonora Mazzoni

Non c'è Marco stasera. Ma ho comunque due uomini, Matteo per la prima volta e Lorenzo. Donne, al solito, tante. Maria, Sarah, Alessandra, B.Lavinia, Patrizia B., Rosanna, Elke ed io.

Si parla di donne ne Le difettose, ma non è un libro per donne. Si parla di donne con l'ossessione della maternità. La protagonista è Carla, che può contare su due guide spirituali d'eccezione, Seneca e la nonna Rina.

Marco, pur assente, mi ha fatto arrivare il suo pensiero sul libro. Ritiene che il tema sia femminile e la narrazione efficace, sebbene non sia entusiasta del libro. Secondo lui i tempi suggeriti dalla natura devono essere rispettati in quanto a fecondità. La libertà sbandierata di decidere il tempo, di fatto è una schiavitù al proprio io. In ultimo, visto che il libro cita personaggi biblici, è importante ricordare che solo Dio può rompere i tempi naturali dell'uomo.

Rosanna trova geniale il terzo personaggio che è Seneca, e dice che sì, in effetti la scienza supporta protesi di onnipotenza. E che l'uomo, in questo caso Carla, si ferma solo quando fa i conti con la morte.

Sarah è d'accordo sul fatto che nella maternità è preferibile assecondare i tempi giusti, evitare l'accanimento anagrafico. Ha letto che l'autrice è stata criticata per aver trattato un tema così importante con facilità.

Invece a Maria è piaciuto il tipo di scrittura, ironico, ma senza degradare gli argomenti. Una scrittura persuasiva, con dialoghi sentiti. Ritiene che possa essere un libro educativo e informativo. Quando enuncia le casistiche non è incomprensibile o noioso, come potrebbe essere una lettura scientifica. Quando descrive i personaggi li tratteggia con cura. Quando affronta il tradimento, che tradimento non era, lo fa con delicatezza. Secondo Maria una donna decide l'età, come decide di abortire se non sente l'istinto materno. Quello a cui dovrebbe essere posto un limite è il numero delle inseminazioni, e il monoteismo genetico.

Sarah interviene dicendo che non la disturba la fecondazione eterologa. La disturba la difficoltà di accedere alle adozioni.

Elke pensa che le esperienze raccontate sono tutte toccate bene, ma il tema le crea delle contestazioni interiori. L'uomo non può pilotare tutto da un lato, dall'altro la possibilità di raggiungere un sogno non può non essere perseguita. Lei, in una situazione simile, avrebbe perseverato. E l'ha colpita come Carla alla fine si aggrappi a tutto, voti e stregonerie e intrugli.

Per B.Lavinia è stata bellissima la solidarietà tra donne.

Lorenzo pensa sia un male italiano, quello della maternità o paternità troppo spostato in avanti e che poi crea delle difficoltà. In altri Paesi la soglia di età per fare figli è più bassa, perché ne hanno la possibilità. Lui accetterebbe tutto in termini medici, se fosse necessario ad avere un figlio. Quello che non accetta è l'idea che un figlio ti faccia passare i progetti, e quindi sia più facile rimandare il figlio. Lui, da poco papà, dice di sentirsi vecchio, magari avrebbe dovuto pensarci un po' prima, però ha visto i Duran Duran!

Matteo interviene anche lui al suo primo incontro, e dice una frase bellissima. Ridurre il gap generazionale è un regalo originale, nel senso di origine.

È quello che ho sempre pensato per i miei figli, aver fatto loro un regalo d'età. Per me la distanza generazionale è stata inibente. Poi, sulla fecondazione assistita, penso davvero che non ci si debba accanire, che non si possa martoriare il proprio corpo, che ci sia troppa speculazione, a tratti troppe speranze gratuite e micidiali.

sabato 8 giugno 2013

il santo bevitore

Potrei iniziare così.
Un sabato mattina dell'anno 2013, a un semaforo che non è ancora rosso, me lo trovo al centro della strada. Lo conosco. Nel senso che lo vedo sempre nel mio quartiere. A tutte le ore del giorno e della notte, basta cercarlo con lo sguardo e lui arriva. Ha un aspetto trascurato, ma avrà al massimo la mia età. Suscita pietà, ma non la chiede. Dondola, non barcolla. Sembra non accorgersi del mondo intorno, di ogni mondo intorno. Di riprovevolezza, di pietà, di esclusione, di carità, di tenerezza. E neppure del mio si accorge, qualsiasi mondo sia quando a tratti mi soffermo a osservarlo contemplando quel suo esistere.
Me lo immagino pensare non ho un indirizzo, sono un ubriacone, mi piace vivere così, ascolto della bella musica, vorrei avere una morte lieve e bella, i miracoli non accadono più, sono solo. Forse.
Lo osservo ogni volta e mi incanto. Si trascina una coperta fatta a fagotto. Indossa lo stesso piumino, estate e inverno. Ha un jeans che sembra alla moda, col cavallo basso, ampio, e strappato vicino alle parti intime. Ha delle cuffie. Poi delle nike ai piedi. E sempre, sempre una bottiglia tenuta con le mani giunte all'altezza del petto.
Eccolo il mio santo bevitore. Sta pregando, penso ogni volta. Non sta bevendo. Lui non beve. Prega.
Questo sabato mattina del 2013 gli sono arrivata vicino con l'auto. Lui era nel centro della strada, appunto. Ho fatto passare un verde, ho aspettato un rosso, poi un altro verde e un altro rosso, ché dietro non c'era nessuno a maledirmi perché sono una donna alla guida.
E questo non è poco, anche se non è un miracolo. Per lui, ma anche per me.

Suggerimento di lettura: La leggenda del Santo Bevitore di Joseph Roth